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Senza più Obama a proteggerlo, ora il governo Renzi applaude Juncker

Dagli attacchi alla Ue ai silenzi complici delle dichiarazioni anti-Trump

Senza più Obama a proteggerlo, ora il governo Renzi applaude Juncker

Roma - Anti-trumpisti d'Europa e d'Italia, unitevi. A guidarvi, un usato sicuro ma non troppo: l'impopolarissimo presidente della Commissione Ue, già chiacchierato leader lussemburghese, incappato in mille scandali e contestato in lungo e largo dal premier Matteo Renzi. Ecco Jean-Claude Juncker, la testa d'ariete per sfondare il muro del populismo americano, una linea Maginot per scongiurarne il dilagare nel Vecchio Continente.

Strano il destino degli uomini, ancor più quello dei politici, legati come sono a un fruscio d'ali in Ohio, a un passo-double di un bisonte del Wyoming. Pessimi erano i rapporti tra Renzi e il numero uno dell'Unione, con momenti di tensione culminati a inizio settimana nel clamoroso «me ne frego!» lanciato da Juncker a Renzi. Linea della «rottura», quella portata avanti da Palazzo Chigi, che trovava il proprio bastione e scudo nel rapporto privilegiato con l'amministrazione Obama e la sua erede designata, Hillary Clinton. Vedi poi il diavolo che ti combina? Fa spuntare Pannocchia d'arancia, al secolo Mr. Donald Trump, e per Matteo son dolori. Alle spalle quel Trump incautamente definito «un disastro», sul davanti l'«euroburocrate» Juncker, «servo» della Bce e dei diktat tedeschi pro austerity.

Un incubo. A volte però la provvidenza ci mette del suo, perché proprio all'indomani dell'elezione di Trump, mercoledì sera, i duellanti d'Europa si sentono al telefono. La «volpe» Juncker ha già capito l'imbarazzo renziano, la debolezza della posizione italiana con gli Usa, e ci si infila alla grande. «Matteo non ti preoccupare - gli dice flautato -, la Ue sostiene l'Italia sulle spese per i migranti e i terremoti. Puoi contare su di noi...». Anche a proposito del referendum, s'intende. Una pace che sulle prime sembra riguardare soltanto la manovra italiana e il braccio di ferro tra il commissario Moscovici e il ministro dell'Economia italiano, Padoan. Anche perché in quel momento Juncker è a Berlino per le celebrazioni della caduta del Muro, e sta rassicurando i tedeschi sul rispetto delle regole, abilmente introducendo una logica d'eccezione. Guarda caso, il riferimento tocca l'Italia, «Paese in cui, leggendo i giornali, vedo che sono riuscito ad aumentare ulteriormente il mio grado di impopolarità...». E via con le disgrazie piombate sullo Stivale, «l'arrivo massiccio di rifugiati, diversi terremoti e anche un tornado...».

Renzi al telefono gioisce e ringrazia. Ma non passano 48 ore e Juncker sferra il secondo colpo lasciato in canna: l'attacco furibondo a Trump che «perturba gli equilibri mondiali, deve imparare a conoscere il mondo e ci farà perdere due anni». Muto e attonito il governo italiano sta. Allineato e coperto sulla Ue, non può neppure esporsi ulteriormente nei confronti di un alleato verso il quale si lavora al recupero. Encomiabile cerchiobottismo reso manifesto ieri dal ministro Calenda, che ieri se da un lato definiva Juncker «in un momento brillante, spumeggiante», dall'altro notava che «sarebbe meglio essere un po' più tranquilli, cercare di misurare i termini e cercare di capire quel che succede». In guardia, insomma, che troppe bollicine fanno girare la testa. Come l'asino di Buridano, si rischia di non arrivare alla mangiatoia.

Né al di qua né al di là dell'Oceano.

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