Cronache

Ecco il meglio di Brera, goleador del giornalismo

Ecco il meglio di Brera, goleador del giornalismo

Vorremmo ancora inseguire Gianni Brera nel ruscelletto pieno di sassi e acqua fresca dove le parole scorrono veloci e qualche volta incomprensibili, i neologismi saltabeccano da un racconto all'altro, i personaggi sguazzano tra fantasia e realtà, letteratura e storia, calcio e sentimento, allegoria e paradossi se la giocano sfidando la nostra voglia di leggerlo. Chissà se anche oggi Gioannbrerafucarlo ci farebbe lo stesso effetto? O forse ci annoierebbe, magari lo sentiremmo sorpassato? O meglio bypassato dalle letture degli iPhone e del web? Possiamo pensare tutto e di tutto, ma non potremo mai scostarci dall'incanto, talvolta intimistico, del raccontar personaggi: la lettera in morte di Nereo Rocco, Meazza el fòlber, Coppi dolente Don Chisciotte, L'oro di Mennea a Mosca. «Io Triumphe, Pier Paolo Mennea da Barletta, in alto le bandiere e i canti per te». Il successo di Livio Berruti. «Ho sognato di scrivere questo articolo per tutta la vita». Amava Enzo Ferrari, «Un ingenuo di sublime sadismo» e faceva scorrere le idee su Andreotti «In tutto degno di Guicciardini» o Leopardi «Un genio e un pedante insopportabile». Ti raccontava Montanelli: «Ha tutti i vizi del mio tempo confuso e infelice. Forse per questo la sua tournure mentale mi sfagiola assai più di quella di Curzio Malaparte. Adesso non mi indispettisce neppure più che frusti sulle natiche i commenda lombardi, sapendo benissimo di farlo perché abbiano a godere». E si soffermava su Roosevelt: «Ha inventato l'acqua calda con il New Deal». Volava e distillava parole e umori. Sul suo scrivere si sono affastellate tesi di laurea.

Certamente dovremmo inchinarci davanti a quella idea «Abatini siamo e abatini, ahimè, resteremo» che ancora non ci ha abbandonato. Lo scrisse nel 1966, alla vigilia degli europei di atletica a Budapest. Visto dove siamo finiti con la nazionale nostra? Visto che Paese siamo? Chissà mai non torni attuale l'incipit di un capitolo del Corpo della ragassa, un romanzo scritto in tre settimane per scommessa. «In novembre, la nostra Bassa è il paese più triste del mondo...». Forse ne uscirebbe con il sorriso sghembo di chi si duole dell'aver avuto ragione. Ancora oggi, nel nostro novembre.

Brera diceva di essere di nascita ghibellina (Pavia, ovvero San Zenone Po) e di origine guelfa (Milano). Chiamato Giuanén nel dialetto di casa sua. Poteva diventare prete o maggiore di cavalleria. Invece il seguito lo ha raccontato in terza persona: «Sapendo lui bene o male scrivere, si trova ad essere più giornalista che scrittore come aveva sognato di diventare. Il giornalismo è, notoriamente, la scorciatoia dei poveri: da cui la convinzione, forse errata, che per essere artisti in Italia bisogna essere agiati o pidocchiosi». Scriveva 50-60 cartelle (il foglio di scrittura per macchina da scrivere) alla settimana. «E il rischio è che la musa abbia a visitarti quando racconti un gol o uno scatto olimpico, latitando miserevolmente quando, invece, hai indosso il robone rosso del curiale che ambirebbe onorare le Lettere».

Abatino fu un bozzo d'idea per celebrare Livio Berruti, vincitore di Olimpiade, poi divenne la sciabola di sfida con Gianni Rivera, infine si trasformò in abatoncello quando gli toccò pensare qualcosa per Giancarlo Antognoni. Brera è stato Accademico e Arcimatto, amato o soltanto sopportato. Si diceva venditore ambulante della cultura. Conversatore e descrittore. Ha rimpinguato il nostro vocabolario e forse non ci siamo accorti quanto. «Talvolta mi visita la musa mentre sto per battere un calcio d'angolo. Obbedisco allora ai suoi estri gentili, invento nuove e oscene parole che altri inghiottono come purganti necessari». E ne sono nati: ammoina e acciaccapesta, allupato e baccagliare, ciolla e bradipsichico, bassaiolo e barbino, libero, melina, palla-gol, atipico, goleador, centrocampista, forcing, pretattica, incornare, cianchetta e cippirimerlo, fescennini, fuffignare e gnagnera, manfrina, millanta e misirizzi, musse e nesci, palabratico, pellagroso, piota e posaglutei, prestipedatore, sbolinato, scavezzarsi e scancosciato, smandrippato e stravaccarsi, tripallico, tecnomanzia, uccellare, uheggiare.

Ci ha regalato eroi a modo nostro: Riva Rombo di tuono, Einstein Bertini, Gazzosino Oriali, Conileone Altafini, Baron tricchetracche Causio, Accacchino e Accaccone per i due Herrera o Chiodi plurale di se stesso. E tutti mazzolavano calcio e mollavano i pappafichi, menavano il torrone e inciampavano nelle primule, cantavano e portavano la croce, ruminavano calcio o ciaciugliavano calcio. Sempre sotto il dominio di Eupalla.

Raccontò di avere avuto una angoscia nella vita: «Non cimentarmi, non essermi nemmeno mai provato ad essere Goethe». Invece la scorciatoia del giornalismo... Nel 1954 lasciò la direzione della Gazzetta dello sport, andò free lance negli Stati Uniti. Poi al Guerin Sportivo e a il Giorno. Si imbarcò al Giornale nuovo, un vascello corsaro, quando Montanelli lo chiamò per dar vita al numero del lunedì. Arrivò da re, se ne andò da primadonna scocciata: forse non volle comprendere l'essenza giovanilmente agonistica di quella redazione. Approdò al felice regno di Repubblica. Sbirciare sui suoi taccuini era lezione di giornalismo: infiniti graffiti di parole. Non gli sfuggiva nulla: contò esattamente 27 tiri in porta all'esordio di Luis Suarez. E lo criticò. Vide Roberto Baggio, un pomeriggio a San Siro, e gli sfuggì subito: «Questo è il nuovo Meazza». Pur se la vista cominciava ad essere blanda, aveva l'intuito, sentiva il profumo dei campioni. Non ha vissuto il tempo delle moviole esasperate e forse ne ha salvato un pizzico della sua grandezza. Lasciò la terra in una notte del dicembre 1992, lungo una strada tra Casalpusterlengo e Codogno. I campioni se ne vanno al tramonto.

Brera ha scelto la notte. Cosa gli avrebbe detto Goethe?

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