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La folle richiesta dell'opposizione con 2 anni d'anticipo. "Meloni si dimetta se ko al referendum"

La speranza, come si sul dire, è l'ultima a morire. E così il centrosinistra - e in particolare il Pd - per liberarsi di Giorgia Meloni sembra puntare tutte le sue carte sul referendum istituzionale sulla riforma costituzionale

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La speranza, come si sul dire, è l'ultima a morire. E così il centrosinistra - e in particolare il Pd - per liberarsi di Giorgia Meloni sembra puntare tutte le sue carte sul referendum istituzionale sulla riforma costituzionale. Che però si terrà - se tutto va bene - tra il 2025 e il 2026.

Una prospettiva di lunga lena per l'opposizione. Ma i suoi dirigenti sono perentori: «Se il governo perde il referendum deve andare a casa: una riforma costituzionale imposta dall'esecutivo al Parlamento e ai cittadini, che poi viene respinta dagli italiani, obbliga il governo a lasciare», afferma ad esempio il capogruppo al Senato dei dem Francesco Boccia. Non è da meno la sua omologa alla Camera dei Deputati, Chiara Braga: «Sicuramente se definisci questa la madre di tutte le riforme, come ha fatto la premier, e poi perdi il referendum confermativo, non puoi fischiettare e non trarne le conseguenze». Stessa conclusione: tra tre o quattr'anni, se la riforma cosiddetta del «premierato forte» completerà l'iter parlamentare, verrà approvata da entrambe le Camere nelle letture prescritte dall'articolo 138 della Costituzione, verrà sottoposta a consultazione popolare e non otterrà la maggioranza, Meloni dovrà dimettersi. Proprio come fece Matteo Renzi nel 2016, un secondo dopo l'esito del referendum.

Il discorso ha una sua ratio, certo. Tant'è che Giorgia Meloni ha già messo le mani avanti, spiegando che «in caso di bocciatura non mi dimetterò, come invece minacciarono di fare altri in passato». Ma al tempo stesso sembra rivelare che il centrosinistra è consapevole della propria attuale debolezza, nel proporre una credibile alternativa politica al governo Meloni. Tanto da sentirsi costretto a puntare non sulle prossime scadenze elettorali (di qui a pochi mesi si vota per varie regionali, amministrative e per le Europee) ma su un lontano referendum, mentre non è ancora neppure iniziato l'iter parlamentare della riforma.

Nel frattempo, le opposizioni appaiono più interessate ad agitare lo spettro dell'«assalto alla Costituzione» da parte delle destre che a organizzarsi per contrastare una riforma legittimamente criticabile in Parlamento. Non a caso la «difesa della Carta» è diventata improvvisamente uno dei numerosissimi punti della piattaforma - in continuo divenire - per la manifestazione indetta dal Pd di Elly Schlein per l'11 novembre. Inizialmente promossa in difesa della sanità pubblica, poi (visto che il tema non era sufficientemente mobilitante) aggiornata con la pace nel mondo e con il contrasto alle riforme. Di qui all'11 altro si potrà aggiungere. In Parlamento, però, l'iniziativa latita. «Sarebbe auspicabile che le opposizioni si attrezzassero con una proposta comune sul maggioritario a doppio turno con indicazione - e non elezione diretta - del premier. Ma per ora non sembrano in grado», nota il costituzionalista ed ex parlamentare Pd Stefano Ceccanti. Il leader di Azione Carlo Calenda propone da settimane, finora senza esito, un fronte comune per il «cancellierato alla tedesca», da contrapporre al premierato all'italiana. L'unico che si muove, per il momento, è Matteo Renzi: il leader di Iv si dice favorevole al premierato, ma prende le distanze dal compromesso sfornato dalla maggioranza e spiega che non voterà «pasticci» a scatola chiusa, e proporrà modifiche sostanziali.

Senza aspettare il referendum.

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