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"Giusto assolvere Dell'Utri". Demoliti i teoremi dei pm sulla trattativa Stato-mafia

Il pg della Cassazione sposa la tesi dell'Appello: "Niente prove di accordi con Cosa Nostra". La sentenza il 27 aprile, ma è un colpo durissimo alla Procura.

"Giusto assolvere Dell'Utri". Demoliti i teoremi dei pm sulla trattativa Stato-mafia

Tutto può ancora accadere, nel processo sulla presunta trattativa tra Stato e mafia. Persino che il prossimo 27 aprile, quando emetteranno la sentenza, i giudici della Cassazione scavalchino la Procura generale, l'ufficio che per legge rappresenta l'accusa. Quel che per ora c'è di certo è che un teorema giudiziario - e insieme ad esso un gigantesco circo mediatico e giudiziario - durato quindici anni viene smontato in poche ore. La procura di Palermo, che chiedeva un nuovo processo contro l'ex senatore Marcello Dell'Utri e contro gli ufficiali dei carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, assolti in appello con formula piena, viene smentita dalla procura generale della Cassazione. Per Dell'Utri si chiede la conferma della assoluzione. Per i tre carabinieri, un nuovo processo: ma di segno esattamente opposto a quello invocato dai pm siciliani.

Il nocciolo della richiesta è semplice: non c'è prova che la trattativa che ancora oggi agita i talk show ci sia mai stata; non c'è prova che lo Stato abbia ceduto alle richieste di Cosa Nostra, come sostenuto dai pentiti che la procura di Palermo ha circonfuso di autorevolezza. La rilettura giudiziaria di una stagione drammatica della vita del paese, segnata dalle stragi di mafia del 1992 e 1993, aveva portato i pm siciliani - Antonio Ingroia e Nino Di Matteo in testa - a incriminare eroi della lotta alla mafia come Mori, ministri come Calogero Mannino e Nicola Mancino, e di lì a lambire perfino il Quirinale. Già per due volte i corollari del teorema erano crollati: prima con l'assoluzione di Mannino, poi con quella di Mori e del suo braccio operativo Sergio «Ultimo» De Caprio per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina dopo l'arresto del boss. Così l'udienza di ieri in Cassazione diventa l'ultima spiaggia per gli ideatori del teorema e per i loro fans che infatti presidiano il palazzaccio di piazza Cavour.

In primo grado erano piovute condanne pesanti: dodici anni per Dell'Utri, Mori e Subranni, otto per De Donno. In appello il ribaltone, tutti assolti tranne i due mafiosi accusati di avere ideato il ricatto allo Stato, Leoluca Bagarella e Gaetano Cinà. La procura generale di Palermo non si era arresa e si era appellata in Cassazione accusando la Corte d'appello di avere «contraddittoriamente ed illogicamente assolto gli imputati».

Ieri, però, arriva la sorpresa. Presente in aula con ben tre magistrati, la procura generale della Cassazione chiede che sia confermata l'assoluzione di Dell'Utri. Per i tre uomini dell'Arma chiede invece un nuovo processo. Ma quella che di primo acchito era parsa una linea dura verso i carabinieri, quando trapela meglio il contenuto della richiesta si presenta come una sconfessione piena della linea d'accusa. In appello Mori e gli altri erano stati assolti perchè «nulla osta a riconoscere che i carabinieri abbiano agito avendo effettivamente come obbiettivo quello di porre un argine all'escalation in atto della violenza mafiosa che rendeva piu' che concreto e attuale il pericolo di nuove stragi e attentati». Le richieste della mafia c'erano state, insomma, ma i Cc le avrebbero trasmesse solo a fin di bene. Ieri invece la Procura va più in là, e spiega che manca addirittura la prova che i diktat mafiosi - in sostanza: stop alle bombe in cambio della attenuazione del carcere duro - siano mai partiti: e infatti viene chiesto anche l'annullamento delle condanne di Bagarella e Cinà.

Non è provato, dice la pubblica accusa, che Mori abbia trasmesso le richieste di Cosa Nostra a Francesco Di Maggio, allora vicecapo delle carceri, e non è provato che Di Maggio le abbia riportate all'allora ministro della Giustizia, Giovanni Conso.

E d'altronde l'unico vantaggio concreto ottenuto da Cosa Nostra in quella fase, la rimozione di trecento detenuti dal 41-bis, è stata sempre spiegata da Conso come una iniziativa autonoma, dettata da ragioni giuridiche dopo le critiche della Corte Costituzionale al regime di massima sicurezza. Il capo del governo si chiamava Ciampi

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