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Il governo dei sospetti: scontro finale Salvini-Conte

Il silenzio del leghista al Colle genera dubbi sulle sue mosse. Il dialogo è più complicato. Tensioni sul ddl assestamento

Il governo dei sospetti: scontro finale Salvini-Conte

Una lunga maratona di vertici mattutini, pranzi, riunioni serali e summit notturni non basta a cambiare il passo di quello che ormai è il «governo dei sospetti». Gli incontri, i colloqui riservati, persino i faccia a faccia ormai sono più caratterizzati da diffidenza e non detti che da un approccio davvero fattivo. A volte, sono contraddistinti persino da lunghi silenzi. Come quello che ieri ha tenuto Matteo Salvini durante la consueta colazione di lavoro al Quirinale in vista del Consiglio Ue in programma oggi a Bruxelles. Solo uno dei tanti appuntamenti di una giornata infinita che si è aperta alle 8.30 con una riunione a Palazzo Chigi tra Giuseppe Conte, Giovanni Tria e i due vicepremier Salvini e Luigi Di Maio. E che è continuata al Colle, poi di nuovo a Palazzo Chigi con il Consiglio dei ministri serale e a seguire con un vertice sulla giustizia. Al Quirinale, ovviamente, tra i vari temi sul tavolo non poteva mancare la trattativa in corso con la Commissione per evitare la procedura di infrazione, questione illustrata dai ministri Tria ed Enzo Moavero. Ma sulla quale ha pesato il silenzio del leader della Lega. Salvini, è vero, non è tecnicamente titolare della materia. Ma sul punto ha una linea ben definita, piuttosto autonoma rispetto al resto del governo e che non perde occasione di ribadire. Solo un’ora prima di salire al Colle per il pranzo, per dire, in una diretta Facebook il ministro dell’Interno ha puntato il dito contro quelle «norme europee studiate a tavolino per aiutare Berlino e Parigi e fregare tutti gli altri». Non certo l’approccio prudente auspicato da Sergio Mattarella in queste ore. Ecco perché il silenzio di Salvini - che ha passato la maggior parte del tempo a parlottare con il sottosegretario alla presidenza Giancarlo Giorgetti - ingenera in molti suoi interlocutori il timore che il leader della Lega possa avere in mente altri obiettivi. Che pur assicurando pubblicamente di voler andare avanti altri quattro anni, stia in realtà facendo quanto in suo potere per accendere la miccia della crisi. Un timore che hanno anche al Colle, dove fanno fatica a comprendere la ragione dei continui affondi sull’Ue proprio adesso, nel momento cruciale della trattativa. D’altra parte, non è un mistero che Salvini abbia preferito non confrontarsi direttamente con Mattarella dopo che le elezioni europee hanno completamente ribaltato i rapporti di forza nel governo. Conte e Di Maio hanno chiesto di incontrare il capo dello Stato per fare il punto della situazione, il leader della Lega no. Scelta legittima, ci mancherebbe.

Ma che inevitabilmente - sommata agli affondi di questi giorni su flat tax e minibot - ingenera dubbi su dove davvero Salvini voglia andare. Il timore non è tanto quello della crisi di governo che quasi certamente porterebbe a elezioni anticipate in autunno, ma che il vicepremier voglia temporeggiare fino a quando - intorno al 20 luglio - non si chiuderà la finestra elettorale. A quel punto, infatti, un’eventuale crisi andrebbe a sbattere con la sessione di bilancio da approvare entro fine anno. Peraltro, che i rapporti all’interno del governo siano tesissimi non è un mistero per nessuno. Ieri, per esempio, dopo che Conte ha fatto sapere di essere pronto a presentare in Consiglio dei ministri il ddl di assestamento del bilancio per cercare di tendere la mano a Bruxelles, dalla Lega - rigorosamente off the record - facevano trapelare un deciso disappunto. Il premier - questo veicolavano ambienti vicinissimi a Salvini - ha «clamorosamente sbagliato» perché il ddl di assestamento non può essere discusso prima del 26 giugno, quando ci sarà un passaggio tecnico in Corte dei Conti. Insomma, tutto fuorché un approccio collaborativo. Con il vicepremier che ha «cannoneggiato» Conte tutto il pomeriggio nonostante sul ddl ci fosse già il via libera di Tria. D’altra parte, i sospetti non sono solo quelli del Colle. Ma di tutti i protagonisti di questa intricata partita. Certo non si fida Di Maio, costretto a piegarsi ad ogni richiesta di Salvini, perché un ritorno alle urne rischia di coincidere con la fine della sua carriera politica. Gli affondi del leader della Lega sull’Ue e l’ennesimo assedio a Virginia Raggi («Roma merita di più, siamo pronti a presentare un programma alternativo», ha detto ieri) non possono farlo dormire tranquillo.

Ma non si fida neanche lo stesso Salvini, che proprio ieri ha dovuto incassare una sonora sconfitta in commissione di Vigilanza, dove il M5s ha votato insieme al Pd bocciando il doppio incarico per il presidente Rai Marcello Foa.

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