Politica

I 70 anni di Formigoni ma il cielo è meno Celeste

L'ex golden boy della politica da don Giussani al declino dopo il lungo regno in Lombardia

I 70 anni di Formigoni ma il cielo è meno Celeste

Forse si era stancato di essere Formigoni. In Italia, come sostengono alcuni storici, i cicli durano vent'anni. Un ventennio andò avanti l'abbraccio al fascismo; quarant'anni, doppio giro di venti, il regime democristiano, ancora venti lo scintillare del berlusconismo. No, Roberto Formigoni, il Celeste oggi sbiadito, si era abituato a guardare Milano dall'alto del suo ufficio vetrato al trentesimo piano del Pirellone e non aveva compreso che lo skyline stava cambiando. La Seconda Repubblica scricchiolava, i grillini innestavano il turbo, la crisi divorava il benessere. Lui guardava ma non vedeva. Scorgeva solo la propria grandeur e la voglia di marciare su Roma. Sì, il Celeste scalpitava: a Formigoni non bastava più essere Formigoni. Errore catastrofico. Seguito da un declino rapido come una malattia incurabile fra indagini della Procura di Milano, scatti d'ira per la delizia delle tv, incomprensioni con il suo elettorato, a cominciare dallo storico bacino di Comunione e liberazione, sbarrato dalla diga della nuova leadership di don Julian Carron.

Ma oggi, al traguardo dei settant'anni, non sarebbe corretto costruire un bilancio sventolando solo la coda avvelenata. Senza riconoscere la novità portata da questo ragazzo, nato a Lecco il 30 marzo 1947. La prima vita di Formigoni è quella del giovane alto, imponente, il volto incorniciato da un barbone pensoso e un po' da guerrigliero, perfetto per gli anni Settanta. Ma quel decennio, per lui come per il suo amico e compaesano Angelo Scola, oggi cardinale di Milano, è quello segnato da don Giussani che fra le aule del liceo Berchet e i chiostri della Cattolica ha rivoluzionato il cattolicesimo italiano: il cristianesimo non può restare confinato in chiesa o peggio in una dimensione rituale ma deve investire tutta la vita e traboccare nella società. Il giovane Roberto traduce il carisma in una scommessa: nasce il Movimento popolare, corrente anomala della Dc che poi si apparenterà al mondo andreottiano. Nel 1984 l'enfant estraneo alle camarille sbanca alle Europee con 450mila preferenze. Strabiliante. L'intuizione straordinaria di Giussani sembra mutare anche i rapporti di forza dentro il paludoso mondo dei Palazzi romani. Ma la realtà è più complessa. La Dc precipita nel gorgo di Tangentopoli, lui si reinventa, in continuità con la stagione precedente, come colonnello del Cavaliere. Inizia il ventennio che trasforma la locomotiva d'Italia. La sussidiarietà, principio cardine della dottrina sociale della Chiesa sempre evocato ma poco applicato, diventa un pilastro della sua azione: il Celeste, ormai lo chiamano tutti così, libera le energie che salgono dalle mille imprese della sua terra. Mischia pubblico e privato, li mette virtuosamente in concorrenza, dà al cittadino, non più comandato come un soldatino, la possibilità di scegliere dove curarsi e dove mandare i figli a scuola. È una doppia rivoluzione culturale e politica anche se oggi i suoi detrattori ne colgono solo gli scandali che l'hanno sporcata. Così dal 23 aprile 1995 al 18 marzo 2013. Un poker di mandati. Il Pirellone come una Formula 1. Poi l'eterno golden boy si stufa di essere una promessa, come Carlo d'Inghilterra. Vorrebbe il trono. Non capisce che il cielo sta cambiando: Berlusconi è costretto alle dimissioni; anche Cl ha cambiato pelle: Carron ha rilanciato la lezione di Giussani, puntando dritto sull'io. Sulla persona, sulla sua balbettante capacità di giudizio, tramortita dalla scomposizione della modernità. I voti non sono più telecomandati, anzi in un certo senso siamo al rompete le righe. Al posto delle preferenze ecco le inchieste. Milano gli presenta il conto: le vacanze da cartolina ai Caraibi, la casa in Sardegna, i pranzi nei ristoranti stellati. Il lusso. Le foto dirompenti di lui nelle acque dell'oceano. La barba sinistrosa e severa degli esordi stona con i fasti superbi dell'età avanzata. Con l'arroganza che a tratti schiuma in sfuriate epiche, regolarmente immortalate. A dicembre arriva la condanna a 6 anni per corruzione. I benefit sono stati la sua zavorra, i soldi invece non li hanno trovati. L'appello potrebbe riservare sorprese.

Di sicuro, il modello creato, a dispetto delle macchie e delle cadute, ha fatto scuola nei morti stagni della politica italiana.

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