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I condannati a morte di Olivetti: "Nessuno ci avvisò del pericolo"

Al processo a De Benedetti per gli operai uccisi dall'amianto testimoniano due ex dipendenti malati terminali. Nuove indagini: acquisite le analisi successive al 2013

I condannati a morte di Olivetti: "Nessuno ci avvisò del pericolo"

Ottantacinque. Molti già morti, gli altri condannati a morire, e sarà una brutta morte: come quella che attende Bruna Perello, che ieri sale sul banco dei testimoni portando con sé la bombola dell'ossigeno; o Pierangelo Bovio Ferrassa che dice ai giornalisti «spero di morire in fretta per togliere il disturbo alla mia famiglia». Ottantacinque, tutti dipendenti Olivetti, e tutti ammalati di mesotelioma pleurico o tumore ai polmoni: il conto lo fa ieri, davanti al tribunale di Ivrea, Silvana Cerutti, la funzionaria dell'Asl che per anni ha scavato sui morti, sui silenzi, sui tentavi di nascondere la verità su quanto accaduto nei capannoni della azienda che era il simbolo dell'imprenditoria illuminata, e che divenne un mattatoio al rallentatore dove, racconta Bruna Perello, con la cannula nel naso a tenerla in vita, «ogni mattina dovevamo spolverare dai tavoli la polvere che li copriva»: quella polvere era l'amianto.

Ieri il processo ai 17 imputati per omicidio colposo plurimo e lesioni colpose, prima di chiamare a deporre Bovio Ferrassa e la Perello i pm chiedono di depositare nuovi atti di indagine. Sono le analisi sugli anni successivi al 2013, compiute su quanto resta dei capannoni e degli uffici Olivetti, che ancora oggi sono risultati infestati dall'asbesto. Insorge Tomaso Pisapia, difensore di Carlo De Benedetti, che fu alla testa dell'Olivetti per diciott'anni, dal 1978 al 1996: il processo si ferma al 1998, che senso ha scavare su quanto accadde in seguito? Ma le pm Laura Longo e Francesca Traverso spiegano che se l'amianto c'era dopo era perché qualcuno ce l'aveva messo prima. E anche «la condotta seguente al reato serve a valutare la personalità del reo». Il giudice accoglie la richiesta del pm. Non comincia bene, il processo, per l'Ingegnere e i suoi coimputati.

Chi doveva uscire di scena lo ha già fatto nel corso dell'udienza preliminare, come i due figli di De Benedetti e gli altri consiglieri passati per brevi periodi nel board dell'azienda, e senza cariche operative. Sul banco degli imputati sono rimasi i vertici: De Benedetti, suo fratello Franco, il suo braccio destro di allora Corrado Passera, oggi candidato sindaco a Milano. Sarà un processo lungo e complicato. Fuori, all'esterno del liceo classico che ospita il processo, Ivrea prepara il Carnevale. In aula poche persone. Bruna Perrello e Bovio Ferrassa aspettano all'ingresso, quieti e quasi dimessi, che l'ufficiale giudiziario li chiami in aula. Per loro il giudice ha modificato l'ordine consueto delle testimonianze, chiamandoli alla prima udienza per il semplice motivo che non si sa quanto loro resti da vivere. I due sopravvissuti lo sanno. Eppure quando si chiede a Bovio Ferrassa cosa prova per i suoi datori di lavoro in lui non c'è odio: «uno direbbe sono arrabbiato, e tanto; ma d'altra parte allora l'Olivetti ci ha dato mangiare, che allora mancava»: e dietro si sentono gli echi di secoli di fatalismo e rassegnazione contadina.

La prima a testimoniare è Bruna Perello, in Olivetti per trent'anni. Una volta sarebbe stata una «anziana Olivetti», titolo che a Ivrea si potava come una croce di cavaliere; oggi invece è una malata terminale che racconta di quando nel 1989, in piena era De Benedetti, venne spostata negli uffici del capannone H, «e in controluce ho buttato l'occhio su queste pareti e ho visto delle cosine che si muovevano. Queste cose piccoline non si staccavano, erano proprio attaccate al cemento, mi sono girata verso i colleghi, qui va a finire che ci prendiamo uno s-ciopone»; o di quando finalmente partirono le demolizioni degli uffici infestati, e macerie piene di amianto rimasero per settimane in cortile, quattro o cinque mucchi mossi da un ragazzo senza tuta né maschera, «commentando abbiamo detto questo poveretto va a finire che si prende un accidente». Invece l'accidente arrivò a lei, una sera del 2011, sotto forma di «una fitta al polmone»: e all'inizio i medici pensavano che fosse pleurite.

A Bovio Ferrassa invece l'annuncio arrivò con un mal di schiena violento, «il dottore mi disse: sarà un colpo di freddo». Nel capannone di Sarmagno costruiva le fotocopiatrici, e i rulli erano pieni di una polverina bianca, «la chiamavamo borotalco». «Noi sbattevamo i rulli, li scrollavamo un po' e la polvere cadeva per terra». C'erano cappe di aspirazione? «No» Avevate maschere? «No» Vi hanno mai parlato di amianto? «No».

Sul processo che ieri entra nel vivo, e sulla sorte di Carlo De Benedetti, pesano le considerazioni che il giudice Cecilia Marino ha scritto in novembre motivando il rinvio a giudizio dell'Ingegnere e degli altri sedici imputati. Il giudice preliminare ha analizzato le carte, comprese quelle scovate dagli investigatori dell'Asl negli archivi storici dell'Olivetti, e che hanno dimostrato come il pericolo fosse ben presente all'azienda. E ha puntato il dito contro l'amministratore delegato: ovvero lo stesso De Benedetti, che da quando è iniziata l'inchiesta sostiene di non essersi mai occupato delle questioni legale alla sicurezza aziendale: «Le clausole sopra riportate - scrive il giudice - indicano che erano conferiti all'amministratore delegato poteri amplissimi, riguardanti tutti i settori dell'attività di impresa (...) non vi è ragione di ritenere che da questo tutto sia esclusa la materia della sicurezza del lavoro; si deve quindi ritenere che l'amministratore delegato nel gruppo Olivetti fosse titolare esclusivo del settore della sicurezza del lavoro sulla base di una delega non implicita ma assolutamente esplicita, in quanto dal contenuto inequivocabile ...».

Sono considerazioni che apparentemente non lasciano margini di difesa all'Ingegnere, ma che in realtà gli aprono degli spiragli: perché se Carlo De Benedetti aveva i pieni poteri sulla sicurezza, allora aveva anche la facoltà di delegarli a questo o quel manager.

Ma bisognerà vedere se i manager accetteranno di restare con questo terribile cerino in mano.

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