Politica

I sauditi lanciano la lotta all'Isis con una coalizione di inaffidabili

Tra i 34 Paesi musulmani anche Emirati Arabi e Qatar. E Kerry spinge per un'intesa con Putin

Il vecchio bluff è finito e l'Arabia Saudita l'ha capito. La «pseudo» guerra allo Stato Islamico non convince più neppure Washington. La missione del Segretario di Stato John Kerry, volato a Mosca per convincere Vladimir Putin a scordare l'Ucraina e stringere un'intesa anti Califfato, ne è la prova. L'inedito asse - su cui Putin pretende più chiarezza, ma che Kerry già definisce l'accordo da cui «tutti hanno da guadagnare» - spiazza i sauditi che rispondono annunciando un'alleanza di 34 nazioni sunnite pronte a «combattere terrorismo e islam estremista». Per molti è solo un altro bluff. Come la favoletta del maggiore Mariam Al Mansouri, la donna pilota di Abu Dhabi mandata a colpire lo Stato Islamico e quella del principe saudita Khaled Bin Salman pronto pure lui a seminar bombe sul Califfato. Nel settembre 2014 l'Occidente se le bevette d'un fiato. Poi la maggiore Mariam si ritrovò delegittimata dalle tribù Mansouri che difesero i combattenti dello Stato Islamico. E il principino saudita tornò agli intrighi di corte.

Nel frattempo la coalizione anti-Califfato messa in piedi nel 2014 dagli Stati Uniti s'è trasformata, almeno sul fronte arabo sunnita, in un autentico dopo-lavoro. Ormai - a dar retta al Pentagono - sauditi ed emirati bombardano l'Isis una volta al mese. Ritmi frenetici se paragonati allo zero di Qatar e Kuwait o a quelli di Giordania e Bahrain che non sganciano bombe dalla scorsa estate. O alle falsità di una Turchia dedicatasi, dopo una manciata di raid estivi, a colpire le basi curde. Irritati dalle rivelazioni e dalla visita di Kerry a Mosca, i sauditi rispondono con un'offensiva propagandistica affidata al principe ereditario - nonché ministro della Difesa - Mohammed Bin Salman. È lui a rivelare che il regno guida - da oggi - un'alleanza di 34 Paesi musulmani per combattere estremismo e terrorismo islamico.

La propaganda sembra però perder smalto. La lista dei 34 membri - oltre a comprendere quanti già brillano per arrendevolezza - include staterelli come Gibuti, Maldive e Comore, potenze nucleari come il Pakistan ignare, a suo tempo, d'ospitare Bin Laden, nazioni dilaniate da guerra e terrorismo come Sudan, Somalia, Libia, Nigeria ed Yemen e una «Palestina» dove il terrorismo arabo ha radici storiche. In questo campionario d'ambiguità l'Arabia Saudita resta l'indubbia portabandiera. La capofila della nuova alleanza non è solo la principale responsabile della riluttanza delle nazioni sunnite ad affrontare lo Stato Islamico, ma anche l'immagine istituzionalizzata degli orrori di quell'Islam estremista che si riconosce nel Califfato.

Per comprendere lo scarso impegno dei sauditi e degli alleati sunniti nell'affrontare l'Isis basta gettare un occhio sullo Yemen. Lì - a differenza di quanto succede sui territori del Califfato - i cacciabombardieri sauditi e degli Emirati colpiscono quotidianamente i ribelli «houti» colpevoli di praticare un islam assimilabile a quello sciita e accusati di venir appoggiati dall'Iran. E qui sta il punto. Per alcuni dei cosiddetti «alleati» sunniti (come Arabia Saudita, Qatar e Turchia) i veri nemici non sono i terroristi dello Stato Islamico, ma l'Iran sciita e i suoi amici. In quest'ottica un Isis capace di tener in scacco la Siria alawita, Hezbollah e un'Irak a maggioranza sciita, diventa un'opportunità strategica.

Senza contare che l'Arabia Saudita delle decapitazioni, della pena di morte per blasfemia, apostasia e stregoneria è solo il volto legale, discreto e - grazie al petrolio - «economicamente corretto» degli orrori islamisti usati dal Califfato per imporre la propria egemonia.

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