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La lunga marcia della sinistra per regalare la cittadinanza a tutti

Lo ius soli è da sempre una battaglia ideologica democratica. Ma dalle Torri gemelle alla jihad la realtà ora non è più la stessa

La lunga marcia della sinistra per regalare la cittadinanza a tutti

Gutta cavat lapidem. Sono anni che la sinistra prova a scalfire la roccia dell'opposizione allo ius soli. Il percorso, lento e incurante del contesto in continuo mutamento, iniziò sedici anni fa quando il 1° agosto in Parlamento venne depositata la prima legge di riforma della cittadinanza a firma Turco-Violante che conteneva praticamente le stesse disposizioni su cui si discute in questi giorni. Un mese dopo, gli attacchi alle Torri gemelle avrebbero aperto la stagione del terrorismo islamico. Non erano ancora gli anni delle maxi ondate di sbarchi, dei nuovi flussi migratori né quelli dei jihadisti con passaporti europei, i cosiddetti immigrati di seconda generazione. Ma la solfa è rimasta, appunto, sempre la stessa. La goccia ha continuato a premere costantemente fino a diventare sempre più martellante. Qualche esempio? Nel 2006 fu partorito il disegno di legge Amato che voleva introdurre lo ius soli per i nati dai residenti in Italia da 5 anni. Persino la Cgil prese posizione proponendo l'introduzione dello ius soli nella Costituzione. «Siamo arrivati a 58 milioni e mezzo di persone in Italia e 1 milione e 700mila sono immigrati regolarizzati. Se i figli di questi lavoratori, che probabilmente resteranno in Italia, li facciamo diventare cittadini italiani dalla loro nascita, il loro paese sarà questo e gran parte dei problemi di inserimento, mettere insieme culture e identità diverse saranno affrontati così nel modo più giusto», chiosava l'allora segretario Epifani.

«Chi nasce qui ha diritto di diventare cittadino italiano, dobbiamo avere lo ius soli, come negli Usa e in tanti altri Paesi che hanno una storia di immigrazione più forte della nostra, se vogliamo guardare a un futuro di pace e di coesione»: erano le parole pronunciate nell'ottobre 2011 dal governatore della Toscana Enrico Rossi.

Un mese dopo, Napolitano fu ancora più tranchant: «È una follia che i figli di immigrati nati in Italia non siano cittadini italiani». E motivò la necessità di riportare in auge la legge per «acquisire nuove energie in una società per molti versi invecchiata se non sclerotizzata».

L'anno seguente, politici del Pd, tra cui Sassoli, Franceschini, Fassino, insieme ad esponenti della società civile come Roberto Saviano, firmarono un appello per chiedere all'Ue una direttiva che invitasse gli stati membri a varare una legge nazionale per accogliere il principio dello Ius soli.

Nel maggio 2012 manifestarono in piazza a Roma con lo slogan: «Chi nasce qui è di qui». Scese in campo pure Rosy Bindi: «Accogliere come cittadini italiani i bambini nati da genitori stranieri che risiedono in Italia è segno di un Paese che pratica l'accoglienza e che guarda al futuro».

Bersani pose subito i paletti: «Il primo punto all'ordine del giorno di un governo di centro sinistra sarà il diritto di chi nasce in Italia ad avere la cittadinanza italiana».

Nel 2013 irruppe sulla scena Cécile Kyenge che, da ministro, annunciò: «Lo ius soli è una delle mie prime priorità». Le fece nuovamente eco Romano Prodi: «L'idea che ci possa essere della gente che nasce e vive in Italia e che non sia cittadina mi sembra un po' strana». Fino ad arrivare ai giorni nostri, al Pd dei Renzi, Serracchiani &Co.

Come se dal 2001 a oggi il mondo non fosse cambiato.

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