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Di Maio non voleva il Conte-bis (ma i suoi lo hanno tradito)

A pochi giorni dalla nascita del Conte-bis, emerge tutta la verità sulla trattativa che ha portato all'inciucio. Di Maio (con Casaleggio) voleva tornare con Salvini, ma Conte e Spadafora lo hanno scaricato. E Giggino si è arreso

Di Maio non voleva il Conte-bis (ma i suoi lo hanno tradito)

Luigi Di Maio esautorato dal ruolo di capo politico del Movimento 5 Stelle? Ufficialmente no, ma quanto successo nei giorni successivi alla caduta del governo giallo-verde restituisce il ritratto di un leader depotenziato, di fatto scaricato dai suoi fedelissimi. E scavalcato, nelle gerarchie del partito, da chi a quel partito non è neppure iscritto: Giuseppe Conte. Il cambiamento "cromatico" del governo, dal verde della Lega al rosso del Pd, è il frutto di un processo cominciato qualche mese prima. In cui i pasdaran del Movimento, progressivamente, si sono allontanati da Matteo Salvini per avvicinarsi sempre più a Nicola Zingaretti.

Anche se, a dire il vero, il riposizionamento degli ingranaggi più pesanti della macchina grillina è stato interno al Movimento. Vedi quanto successo al plenipotenziario della comunicazione a 5 Stelle, Rocco Casalino. Il suo atteggiamento è cambiato: meno spaccone, più favorevole al dialogo. Più lontano dagli "estremismi" di Di Maio e Casaleggio, meno contrario a un Conte-bis.

Se necessario, scaricando la Lega e imbarcando il Pd. Tutto è partito dal solito Franceschini. Il ministro dei Beni culturali, insieme a Renzi, è stato il primo dem di un certo peso a credere nell'intesa tra i 5 Stelle e "il partito di Bibbiano", con cui - Di Maio dixit - "non è possibile allearsi". Conte la pensava diversamente, e infatti i rapporti tra loro due si sono incrinati. Inoltre, dalla parte del premier sedeva un altro grande tessitore dell'inciucio, Vincenzo Spadafora, che insieme a Franceschini lavorava nel dietro le quinte del dialogo tenuto ufficialmente dalle delegazioni composte da De Micheli, Marcucci, Delrio e Orlando per il Pd, D'Uva, Patuanelli, Perilli e Silvestri per i 5 Stelle. Una concertazione che è stata resa più facile dal primo, vero accordo tra le due controparti: il voto congiunto a Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea.

Durante la trattativa, Di Maio ha chiesto la Presidenza del Consiglio, poi un posto di vicepremier. Picche dal Pd. E dai 5 Stelle, indipendenti dal loro capo politico nell'opera di mediazione con i dem. Giggino ha creduto, sperato che Rousseau dicesse no all'inciucio. Ma il 79,3% degli iscritti alla piattaforma ha votato sì, spalancando le porte al governo giallo-rossi e relegando, si fa per dire, Di Maio alla Farnesina. Giggino non voleva il Pd, avrebbe riaperto volentieri alla Lega e a Salvini, che gli aveva promesso una poltrona ben più prestigiosa del ministero degli Esteri (dove per altro non è obbligatorio sapere l'inglese): Palazzo Chigi.

Ma difficilmente il presidente della Repubblica avrebbe dato il suo imprimatur. Si sarebbe tornati al voto. Un suicidio per i 5 Stelle, che i sondaggi meno favorevoli danno addirittura al 10%. Dunque Di Maio si è arreso, accettando un ruolo di minoranza nel Conte-bis. E nel Movimento 5 Stelle. Che ora non comanda più a bacchetta, nonostante Casaleggio stia ancora con lui.

Per il momento.

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