Cronache

"Da militare dico: non abbandonare Kabul"

A 25 anni dal ferimento in battaglia a Mogadiscio, parla il parà medaglia d'oro

"Da militare dico: non abbandonare Kabul"

Gianfranco Paglia, paracadutista, è una medaglia d'oro al valor militare rimasto paralizzato nei combattimenti del 2 luglio 1993 in Somalia. Oggi indossa sempre la divisa come consulente del ministro della Difesa soprattutto sui feriti d'Italia.

Venticinque anni dopo il check point Pasta c'è qualcosa da raccontare, che non è mai stato detto sulla battaglia a Mogadiscio?

«La domanda andrebbe rivolta a chi ci governava 25 anni fa. Posso dire, però, che quando i guerriglieri hanno aperto il fuoco facendosi scudo con donne e bambini è vero che potevamo usare subito le armi pesanti, ma poi come avremmo continuato a guardarci ogni mattina allo specchio?».

Cosa non dimenticherà mai della battaglia?

«Il momento più drammatico è quando un razzo Rpg ha colpito il mezzo cingolato davanti al mio. Abbiamo visto la fiammata ed il capitano Paolo Riccò, che tirava coraggiosamente fuori Pasquale Baccaro uno dei tre caduti».

E quando è rimasto ferito?

«Ero con il busto fuori dal mezzo e stavo sparando. Un proiettile mi ha colpito alla schiena. La paralisi è stata immediata. Non riuscivo neanche a parlare, anche se non ho mai perso i sensi».

Oggi a Mogadiscio abbiamo una missione di addestramento. Però il Paese è sempre instabile, in guerra con i terroristi Shabab. Qualcosa non funziona nelle cosiddette missioni di pace?

«Sono missioni per portare la pace, ma se ti attaccano combatti. Nelle operazioni all'estero da una parte aiutiamo la popolazione e dall'altra combattiamo ovvero facciamo i soldati. Questo non vuol dire essere guerrafondai, ma bisogna guardare in faccia la realtà».

Dalla Somalia arrivano ancora dei richiedenti asilo via Libia, ma gran parte dei migranti partono da Paesi non in guerra. È giusta la linea dura sui barconi e le Ong?

«Non spetta a me giudicare la linea del Governo. Non sono razzista e non lo sono stato neanche nei confronti di chi mi ha sparato. Una cosa però la voglio dire, il nostro Paese non può essere considerato lo sversatoio di tutto e di tutti».

Il conflitto in Afghanistan è completamente dimenticato, ma continua con i talebani all'offensiva. Non abbiamo perso, ma neppure vinto. A questo punto non è meglio tornarsene a casa?

«Da militare dico che tornare a casa sarebbe una sconfitta e quel territorio diventerebbe come quello somalo: una base terroristica».

I feriti d'Italia sono stati a lungo un tabù. Solo fra i reduci dell'Afghanistan se ne contano circa 600. In Paesi come l'Inghilterra e la Francia sfilano orgogliosi nelle parate nazionali. In Italia sembriamo quasi voler nascondere che sono feriti in combattimento. Come mai?

«Non concordo. L'Italia è l'unico Paese che dà la possibilità ai militari feriti con un'invalidità pari o superiore all'80% di rientrare, attraverso il Ruolo d'Onore, in servizio ed avere una propria carriera. Come altri sono tornato in missione all'estero in Iraq, Bosnia, Kosovo e Libano. Da quattro anni si è costituito il Gruppo Sportivo Paralimpico della Difesa e noi il 2 giugno sfiliamo in tuta ginnica perché è la Festa della Repubblica a differenza del 4 Novembre quando, per la Festa delle Forze Armate, siamo a Piazza Venezia in uniforme».

Negli Usa l'organizzazione dei veterani influenza la politica e le istituzioni pubbliche. In Italia le associazioni d'arma non hanno la stessa forza e sembra quasi che servano solo per portare labari alle manifestazioni pubbliche e poco altro. Cosa ne pensa?

«In Italia ci stiamo arrivando. In America i veterani sono una potenza essendo tantissimi e hanno un proprio dicastero. Noi stiamo facendo tante cose, non solo portare labari. Ci sono stati protocolli d'intesa con il Miur (Ministero dell'Istruzione) e si va nelle scuole a parlare delle missioni. Le associazioni combattentistiche ci aiutano molto anche con la gestione dei sacrari».

Abbiamo sempre avuto paura" di utilizzare le missioni militari all'estero per un tornaconto economico per le nostre imprese. È ora di cambiare rotta?

«Il termine tornaconto non mi piace, ma credo che la rotta stia già cambiando.

La ristrutturazione della diga di Mosul con imprenditori italiani è un segnale che va proprio in questa direzione».

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