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La nuova legge elettorale e l'inaugurazione di Expo armi per l'en plein. E il premier si gode la fronda in frantumi: «Si sono rivelati generali senza esercito»

RomaL'ultimo tornante da superare è quello di lunedì, con il voto finale senza fiducia. Poi l'Italicum sarà, a tutti gli effetti, la nuova legge elettorale. Un risultato non da poco per Matteo Renzi, dopo un decennio di fallimenti riformatori del centrosinistra e appena un anno di governo: una comparazione che, il premier ne è certo, non sfuggirà agli elettori.

La vittoria sull'Italicum e l'inaugurazione dell'Expo (con le azioni teppistiche dei cosiddetti No Expo che non fanno che aumentare il tifo attorno alla kermesse) segnano infatti la fase finale della campagna elettorale per le Regionali, dalla quale Renzi potrebbe uscire trionfatore: a parte il Veneto, i sondaggi danno il Pd in vantaggio pressoché ovunque. Tutto bene, dunque? A Palazzo Chigi la soddisfazione è temperata dalle preoccupazioni per il futuro, soprattutto sul fronte dell'economia: gli ultimi dati sulla disoccupazione hanno deluso molto il governo, e i rischi di una nuova gelata tra calo della crescita Usa e crisi greca spaventano.

Sul piano interno, la minoranza Pd ha subito, sulla legge elettorale, una cocente sconfitta e una dolorosa frantumazione. Le opposizioni sono confuse: ieri hanno proclamato un improvviso Aventino alla terza fiducia, anche perché gran parte dei loro deputati aveva già preso la via di aeroporti e stazioni; e sul voto di lunedì c'è grande incertezza: il timore è che, se le minoranze chiedono lo scrutinio segreto, i voti pro Renzi aumentino grazie ad apporti nascosti da Forza Italia e Cinque Stelle, dove l'Italicum conta vari fan. Meglio allora restare fuori, e lasciare che la maggioranza si conti da sola, e con essa la minoranza del Pd. Sulla quale il giudizio di Renzi è irridente: «Si sono rivelati generali senza esercito, non sono riusciti a tirarsi dietro nessuno», dice il premier di quel plotone di ex premier ed ex segretari che ha scelto la linea dura della non fiducia. Alla Camera la sinistra Pd conta poco o nulla, al Senato però possono dargli delle belle gatte da pelare. Tanto è vero che la riforma del Senato, in stand by a Palazzo Madama per la terza lettura, subirà probabilmente un rallentamento. Il premier si è preso due settimane anche per risolvere il problema della presidenza del gruppo Pd di Montecitorio, che dopo le dimissioni di Roberto Speranza (l'uomo forte su cui conta la sinistra Pd per sfidare Renzi al prossimo congresso, a quanto pare) resta vacante. L'idea del premier era di lasciare in quel posto chiave un uomo della minoranza, scelto tra i 50 che hanno firmato il manifesto pro fiducia, rompendo con Bersani: tra i nomi più quotati, quelli di Enzo Amendola e di Cesare Damiano. Ma al momento i 50 non sembrano in grado di mettersi d'accordo su una candidatura unitaria, e questo fa salire le quotazioni dell'attuale vicario, il renziano Ettore Rosato. Quel che appare certo è che, con il consueto «rimpasto» parlamentare di metà legislatura, i bersaniani sono destinati a perdere molte poltrone importanti nelle Commissioni: «Conti della fiducia alla mano, si è visto che valgono intorno al 10%, non possono pretendere cariche come se valessero ancora il 60%», dice un dirigente renziano.

Insomma, sarà già molto se l'ex segretario Guglielmo Epifani riuscirà a salvare la sua poltrona da presidente della Attività produttive.

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