Cronache

"Ottentotto? Parola razzista". E il museo rititola i quadri

Via "negro", "nano" e pure "indiano". Il Rijksmuseum cancella le parole oggi ritenute offensive per le minoranze. Così la storia dell'arte si piega al politicamente corretto

"Ottentotto? Parola razzista". E il museo rititola i quadri

C'è stato un tempo in cui se la morale imponeva di mettere le mutande alle opere d'arte, chi si riteneva progressista denunciava l'ottusità dei censori. Oggi sono i vessilliferi del progresso a brandire il bianchetto. L'arte e la storia piegate alla morale corrente? No problem.Succede in Olanda ma di sicuro tanti in Italia approveranno: in uno dei Paesi storicamente più libertari d'Europa il principale museo ha avviato una campagna di ritocco sistematico di nomi e descrizioni delle opere d'arte. L'obiettivo è cancellare ogni riferimento che possa risultare offensivo per una qualunque minoranza, etnica e non solo. Naturalmente, s'intende, offensiva secondo il codice moraleggiante del momento, quello che ha il politicamente corretto come unica religione.Al New York Times, i curatori del museo hanno presentato diversi esempi concreti. A partire dai numeri: su 1,1 milioni di opere ospitate dal museo di Amsterdam, sono circa 220.000 le opere «sospette» i cui cartellini potrebbero venir revisionati. Per cercare di parare le critiche, che pure in Olanda non sono mancate, l'istituzione conserverà in un database on line nomi e descrizioni originali, trasformando anche quelle parole in pezzi da museo, ma un museo seminascosto, diciamo un armadio della vergogna che testimoni come eravamo brutti e cattivi nel passato che rinneghiamo.Naturalmente, visto che il moralismo sulle parole è recente acquisizione e s'aggiorna di continuo, anche i censori si trovano spesso nell'incertezza, rosi dal dubbio: con cosa sostituire «nano»? Con «diversamente alto»?. «Finora abbiamo trovato 132 opere la cui descrizione contiene la parola negro - dice Martine Gosselink, direttrice del dipartimento di storia del Rijkmuseum - e cambiare quelle è stato facile. Ma - esita - è più difficile con parole come ottentotti: è usato per indicare il popolo Khoi del Sudafrica ma in olandese significa balbuziente». «È molto offensivo è va cambiato al più presto possibile», incalza la studiosa, con una frase che tradisce una punta d'apprensione. Di altre parole ritenute «facili» da cassare ce ne sono a bizzeffe, visto che si parla di quadri che risalgono anche a svariati secoli fa, in epoche in cui si badava di più alla sostanza: indiano, maomettano, perfino nano. Tutte parole cadute senza remore sotto la mannaia del censore, già sparite dai cartellini dei quadri, sui muri e sul sito del museo. Tutte riviste e corrette secondo il gusto moderno. «Ora - spiega Gosselink - ci stiamo occupando dei casi più difficili, come quelli in cui la parola sconveniente è direttamente nel titolo». Ma l'appetito vien censurando, e quindi i correttori stanno valutando anche opere come «Il bagno di Bathsheba», di Cornelis van Haarlem, un quadro del 1594 nella cui descrizione si parla di figure «esotiche», perché una delle ancelle di Bathsleba è di pelle nera. Dunque anche il termine «esotico» è finito sotto processo.I curatori del museo, nonostante le proteste di tanti visitatori che timidamente tentano di spiegare che quei titoli e descrizioni sono frutto del loro tempo tanto quanto i soggetti dei quadri, non hanno alcuna titubanza. Anche perché sono mossi da una molla ideologica che non conosce dubbi. Rivelatrice la spiegazione della Gosselink: «Il punto è non usare nomi dati agli altri dai bianchi». Ci risiamo: è il senso di colpa dell'Occidente, da curare rigorosamente correggendo non la sostanza delle eventuali discriminazioni, ma la loro forma. A parole. Come l'ultima, appena sposata da parte del Parlamento europeo con un bel neologismo: «Afrofobia».

Perché l'Europa odia gli africani, non lo sapevate? Ma traquilli: basta dare un nome al fenomeno e farne uno slogan da corteo e tutto passerà.

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