Cronache

Le pale eoliche sono l'Isis, la Basilicata la nostra Palmira

In nome di un finto progresso il paesaggio di un'intera regione è stato sfregiato da impianti mostruosi. Regalando solo povertà

Le pale eoliche sono l'Isis, la Basilicata la nostra Palmira

Altroché elicotteri che spargono petali! Nulla può dare più dolore, a chi ama Roma e la sua storia, della distruzione, sul nostro corpo, sulla nostra memoria, sulla nostra anima, del tempio di Baal Shamin. E il fumo che si alza dalle rovine, un fungo che richiama i più tragici simboli della guerra, fino all'assurda violenza della bomba atomica, in un richiamo doloroso tanto più dove non c'è nessun nemico, ma solo pietre di un mondo perduto, è un'immagine intollerabile che mai vorrei vedere. E, dietro quel fumo, le teste decapitate dei martiri. Gli attentati criminali a Ninive, a Nimrud, a Hatra, in un crescendo di violenza e di terrore, sono macabri annunci che minacciano di non avere fine. Qualcuno può consolarsi pensando che in Italia non potrebbe accadere. E invece accade, in un silenzio ancora più tombale dell'indifferenza per i morti e le rovine di Palmira, di chi si indigna per il carro funebre di Totò. L'Isis è a casa nostra e, per di più, con la presa in giro della tutela dei beni culturali, del territorio, del paesaggio, dell'ambiente.

Ecco, negli anni Settanta l'ideologia pseudo marxista aveva innalzato la bandiera dell'ambientalismo, trasformando anche parole e concetti; e contrabbandando il paesaggio in territorio e le belle arti in beni culturali. Sono stato io, al ministero, a ripristinare la terminologia «belle arti» e «paesaggio». Ma era ormai troppo tardi. Orrori non a Palmira ma nel centro storico di Roma venivano imposti da sindaci e ministri, dopo preventiva distruzione del passato: penso alla teca di Richard Meier, all'Ara Pacis; penso allo sconvolgimento di Piazza San Cosimato; penso alla cancellazione di Bernini da Piazza Montecitorio. Tutto questo è accaduto con il consenso delle autorità. Fino allo sconvolgente allestimento su un trampolino da piscina del Marco Aurelio, sottratto alla piazza del Campidoglio. Ovunque sono cresciuti orrori: a Firenze il Palazzo di Giustizia, a Venezia il cubo di Santa Chiara. Oggi, mentre i colleghi dell'Isis distruggono indisturbati, indisturbati lavorano i costruttori di casa nostra.

Ma non bastava sconvolgere il volto del territorio con edifici innominabili. Occorreva proprio intervenire capillarmente sul paesaggio. Ed ecco allora che, prima il Molise e la Puglia, e ora la Basilicata, sono state cancellate; nella prospettiva di Matera capitale europea della cultura, la strada per raggiungere quella città è stata puntellata di pale eoliche, con una accelerazione tipica di chi teme di perdere il vantaggio che norme della incivile Europa hanno concesso a speculatori e facilitatori. Superata Benevento, martoriata da rotatorie decorate con immagini di Padre Pio lanciato verso il cielo, si iniziano a vedere centinaia e centinaia di croci, in disordine, rarefatte o affollate. Sono pale che non girano, ferme, piantate su tutti i colli a perdita d'occhio. Da Grottaminarda a Flumeri, a Frigento, a Gesualdo, a Buonabitacolo, ad Accadia, a Sant'Agata, a Lacedonia, a Candela, a Palazzo San Gervasio, a Spinazzola, a Genzano di Lucania, ad Ascoli Satriano, a Canosa, a Troia, a Foggia. Via via, come alberi di una foresta meccanica, con l'ironia di chiamarne la insensata proliferazione senza ordine né logica, che non sia la cupidigia, di permesso in permesso, di amministrazioni comunali, regionali, intrinsecamente mafiose, in una stabile trattativa con uno Stato criminale, parchi eolici. Ed è inutile richiamare quello Stato e quell'Antimafia, che si agitano per la colonna sonora del Padrino o per un comico manifesto, al rispetto dell'art. 9 della Costituzione, scritto per garantire un mondo perduto, all'opposto di quello che vediamo. E quando vandali su vandali bruciano i boschi, eccoli non trovare più alberi, ma incendiare pale, il cui fusto è nero. E nero resterà fino a quando una mano pietosa tenterà di svellere quei giganteschi chiodi che hanno crocifisso i colli, stuprandoli e riempiendoli di cemento armato fino al midollo.

Intorno la vegetazione è scomparsa, gli uccelli volano altrove, ma i nostri occhi contemplano l'orrore dove fino a qualche anno fa c'era la curva di dolci colline. E qualcuno avrà detto: «Ma non sono luoghi importanti, non ci sono monumenti significativi» (e non è vero). Una ragione in più per lasciare integro un paesaggio e conservargli la bellezza del suo essere remoto, lontano, una meraviglia da scoprire. Nessun paesaggio è meno importante di un altro, in Italia. E sembra assai singolare che le stesse autorità che hanno assistito imprudenti e complici, magari magnificando l'energia pulita, a danno di una purissima bellezza, siano oggi, con le stesse espressioni, a celebrare la romantica difesa di paesi abbandonati, di borghi dimenticati, in alcune giornate disperatamente dedicate alla memoria di un uomo giusto che oggi sarebbe furibondo e che non aveva previsto, tra i vari aspetti positivi un riscatto del meridione e della Basilicata attraverso la cultura.

Mi riferisco a Carlo Levi e al Festival della Luna e i Calanchi ad Aliano, dove Levi fu al confino. L'organizzatore Franco Arminio pensa agli antichi forni, alle tradizioni, ai canti, alla lingua, in un riscatto di ciò che il progresso ha cancellato nel disprezzo per la povertà. Ed è bellissimo sulla carta. Ma le colline sono perdute. Arminio coltiva la «paesologia». Ed è forse troppo tardi. Così come Carmen Pellegrino inventaria paesi abbandonati (e forse per questo salvati), autodeterminandosi come «abbandonologa». Ma niente è meno abbandonato di ciò che vive dentro noi, e che i barbari minacciano e distruggono, come l'Isis ha fatto con il tempio di Baal Shamin. E mentre noi ci difendiamo in trincea, ad Aliano, ovunque sono disseminate mine e lanciate bombe, esattamente come a Palmira con le mostruose pale eoliche e gli immondi pannelli fotovoltaici.

Vorremmo cominciare veramente una lotta contro la mafia e il potere che la sostiene invece che declinarla in prediche, appelli, e luoghi comuni. Qui, i luoghi e la bellezza comune, risparmiati per secoli, si sono sottratti. Un paesaggio perduto è come un tempio distrutto. E non ho mai visto difendere questi paesaggi sfregiati quelle autorità sconcertate contro i simboli, e pronte a dichiarare e a scrivere la loro indignazione per i carri funebri trainati dai cavalli convocati dalla mafia. I simboli di mafia, cari Saviano, don Ciotti, Boldrini, Alfano, sono queste violentissime ferite al paesaggio (non petali di rose) che voi vi ostinate a non vedere, e che rappresentano la più terribile testimonianza del patto Stato-mafia degli ultimi 10 anni. Franco Arminio si rifugia nel paese di Carlo Levi, e le massime autorità dello Stato applaudono.

Sordi, ciechi, muti.

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