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Il Pd perde la testa per Roma. E la Bindi attacca il premier

Lo scandalo manda il partito nel panico. Orfini ai consiglieri comunali: niente trucchi, tanto il candidato resta Marino. Ma nel Lazio la fronda anti Renzi adesso è più debole

Il Pd perde la testa per Roma. E la Bindi attacca il premier

Blindare Ignazio Marino e fare piazza pulita delle correnti che a Roma e nel Lazio hanno fatto il bello e (come emerge dalle inchieste) soprattutto il cattivo tempo. Ai quali è stato inviato un messaggio chiaro: per il Pd romano ora inizia «l'anno zero», per le cordate di potere che finora si sono mosse è finita la pacchia.

È questo il mandato su cui si muove il commissario voluto da Matteo Renzi nella Capitale, Matteo Orfini, che ieri ha ringraziato i tre indagati Pd (Ozimo, Patanè e Coratti) per essersi autosospesi dal partito. Ai consigliere democrat riuniti a porte chiuse venerdì Orfini ha mandato un messaggio chiaro: «Se si dovesse tornare a votare, sia chiaro che il candidato resta Marino». Chi pensasse di giocare di sponda con le opposizioni (grillini e Forza Italia) che cavalcano la proposta di scioglimento del Comune per togliere di mezzo il sindaco «marziano» e riacquistare spazio, è avvertito. «Non siamo tutti uguali», manda a dire il braccio destro di Renzi, Luca Lotti, «non possiamo tollerare zone grigie, non possiamo tollerare che la politica venga assimilata al malaffare. La politica, la buona politica deve allontanare le ombre».

Per Matteo Renzi non tutto il male viene per nuocere: lo «schifo» emerso dall'inchiesta gli fornisce l'occasione per accelerare l'opera di rottamazione dei vecchi assetti di potere del Pd. Assetti in parte a lui apertamente avversi, in parte anche saliti in extremis sul carro del vincitore per riciclarsi, ma rispondenti a logiche estranee al renzismo della prima ora. Il fatto che il terremoto romano possa indebolire anche il ruolo del presidente della Regione, Nicola Zingaretti (che la minoranza Pd ha spesso indicato come potenziale anti Renzi) non dispiace troppo a Palazzo Chigi.

Il fronte anti Renzi, dal canto suo, prova ad utilizzare il polverone romano contro il premier. Ieri è stato il turno di Rosy Bindi, che dopo aver aperto il «fuoco amico» sul ministro Poletti («Deve chiarire») ha mirato direttamente al presidente del Consiglio: «Conosciamo tutti la sua determinazione, l'abbiamo vista sul Jobs Act e sulla Costituzione. Mi auguro che utilizzi un po' di più questa sua determinazione anche verso la lotta alle mafie». Poi la presidente dell'Antimafia ha annunciato di voler «indagare a fondo» anche lei, usando la Commissione, sul caso Roma, avviando un'inchiesta parallela e convocando una serie di audizioni, dal procuratore Pignatone al sindaco Marino al prefetto. «Si è messa in testa di ripercorrere le orme di Violante sul caso Andreotti», ironizza un parlamentare del Pd, dove più d'uno nutre il sospetto che la Bindi voglia usare la Commissione per pilotare politicamente il caso, tenendo aperta l'opzione dello scioglimento per mafia del Comune.

Gli esponenti del Pd finiti a vario titolo nel cono d'ombra dell'inchiesta «Mafia Capitale» intanto si difendono. C'è Micaela Campana, deputata e membro della segreteria Pd in quota bersaniana, che denuncia con «indicibile rabbia» il «linciaggio mediatico» nei suoi confronti, per quel messaggino telefonico a Salvatore Buzzi: «Ho visto ripetutamente il mio nome sbattuto in prima pagina associato alla vicenda di Mafia Capitale. Il tutto per un saluto che io uso abitualmente, come è facilmente riscontrabile, e per una conversazione priva di fondamento tra due personaggi». Campana sottolinea di non aver mai presentato l'interrogazione che gli veniva sollecitata da Buzzi a proposito del centro di accoglienza di Castelnuovo di Porto.

Respingono la stessa accusa anche due potenti parlamentari romani, il segretario regionale Luigi Melilli e l'ex consigliere comunale di lungo corso Umberto Marroni.

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