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Il Pd vuol cacciare Lotti Però si dimentica dei suoi 140 indagati

Cuperlo guida il fronte interno contro il ministro dello Sport. Ma sugli altri casi regna il silenzio

Il Pd vuol cacciare Lotti Però si dimentica dei suoi 140 indagati

Un passo indietro. Ma anche uno in avanti. Dipende. Un po' sì e un po' no. «Lotti faccia un passo indietro», filosofeggia Gianni Cuperlo, rimasto nel sacro recinto del Pd, ma sempre intransigente con la leadership di marca renziana. Roberto Speranza, appena uscito con Bersani& soci dalla ditta, si sintonizza sulla stessa lunghezza d'onda: «Lotti si dimetta». Vuoi mettere, non è bello avere un ministro dello Sport indagato per rivelazione di segreto e favoreggiamento.

Dunque, i grandi moralizzatori puntano il dito contro il Giglio magico. Oggi va così, il pantheon renziano è in frantumi, da sinistra vanno all'attacco.

È il solito sistema a targhe alterne o a corrente alternata. La regola che vale per Lotti non vale per altri. L'asticella sale e scende di continuo, anzi sembra di stare sulle montagne russe. La carica dei 102, raccontava il Fatto quotidiano un anno fa. Ma il numero degli inquisiti è cresciuto e qualche mese fa il Tempo allungava la lista a 125 nomi. Ora i siti più aggiornati portano il totale a 140. Un esercito di personaggi di prima, seconda e terza fila: sindaci, consiglieri provinciali e regionali, assessori. Ciascuno ha avuto, anche all'interno del Pd, un trattamento diverso.

Marcello Pittella, potente governatore della Basilicata, la stessa regione da cui proviene Speranza, è stato rinviato a giudizio per la Rimborsopoli regionale, ma è tranquillamente in sella. Nessuno ha provato a disarcionarlo. Nemmeno quando i guai sono raddoppiati con l'inchiesta sulla corruzione elettorale in cui è coinvolto anche l'ex sindaco di Potenza e attuale consigliere regionale Vito Santarsiero. Silenzio. La questione morale, vecchio cavalo di battaglia del glorioso Pci, funziona a intermittenza.

Tutti zitti anche quando viene indagato l'ex enfant prodige della new economy e del Pd, Renato Soru. Il Bill Gates italiano. Contro di lui un'accusa imbarazzante: evasione fiscale per aver sottratto al fisco 2,5 milioni di euro. Silenzio dal Pd, è il titolo fotocopia dei giornali. Poi a maggio dell'anno scorso, Soru viene condannato in primo grado a 3 anni e a quel punto molla finalmente la carica di segretario regionale del Pd che ha tenuto per tutto il tempo del processo. Ma resta europarlamentare.

Giorgio Orsoni, doge di Venezia, prova a resistere come altri colleghi di partito: lo ammanettano per un finanziamento illecito nella tangentopoli del Mose, lui ingaggia uno sgangherato braccio di ferro con Nazareno e Procura, poi alza bandiera bianca e sparisce dalla scena.

Ma la politica è un labirinto. Raffaella Paita, assessore regionale alla protezione civile e capogruppo del Pd, viene indagata per la disastrosa alluvione del 2014 in piena campagna elettorale ma resta in gara e viene battuta da Giovanni Toti. A ottobre scorso viene assolta, qualche giorno fa la procura fa ricorso, lei resta capogruppo in consiglio regionale. Affonda invece l'ex sindaco Marta Vincenzi, punita con 5 anni per un'altra alluvione: quella del 2011.

Centoquaranta indagati. Destini diversi. C'è chi resta a galla come un sughero, qualunque cosa succeda, e chi scompare. Garantismo e giustizialismo sono un cocktail dalla composizione variabile: a volte la bevanda è peggio della cicuta, ma in qualche caso è meglio dell'elisir di lunga vita.

Giuseppe Sala, il primo cittadino di rito ambrosiano, scopre di essere sotto i riflettori della procura generale per falso, in relazione agli appalti per la piastra di Expo, e si autosospende. Un coro greco accoglie nel Pd la sua temporanea dipartita: «Rimani, non te ne andare, Milano ha bisogno di te». Lui cerca di capire la portata del siluro, ma il caso resta avvolto nell'oscurità. Che fare? Con la benedizione dei compagni, Sala torna a Palazzo Marino. Indietro e avanti, per tornare alla casella di partenza.

Vincenzo De Luca, potente governatore campano ora alleato di Renzi e ora no, vanta un curriculum impressionante di capi d'imputazione: dall'associazione a delinquere all'abuso d'ufficio ed è sospettato pure di aver comprato il giudice che l'ha tenuto al suo posto a dispetto della legge Severino. Lui, sempre in compagnia di un avviso di garanzia, rilancia ad ogni sussulto giudiziario e anzi minaccia Rosy Bindi. I grillini gli urlano: «Fuori».

Ma il Palazzo non cade.

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