Economia

Pechino: "La crisi è colpa degli Usa"

Scambio di accuse tra la People's Bank e la Federal Reserve. Borse ancora giù (-0,8% Milano)

Pechino: "La crisi è colpa degli Usa"

Non capita tutti i giorni di veder volare gli stracci fra le banche centrali, solitamente perfino troppo misurate nei toni. Ma il terremoto finanziario provocato dalla crisi cinese deve aver fatto saltare più di un nervo. Soprattutto a Pechino, dove le misure prese per arginare la fuga di massa dalla Borsa si sono finora rivelate fallimentari. L'ulteriore iniezione nel sistema bancario da 140 miliardi di yuan (21,8 miliardi di dollari), ha infatti avuto su Shanghai (-1,27% ieri) l'effetto di un'aspirina data a un malato di polmonite. Così, un'esasperata People's Bank of China ha fatto recapitare il seguente messaggio, più o meno una dichiarazione di guerra: «Se i mercati sono nel caos la colpa è delle attese per un rialzo dei tassi Usa».

Nelle scorse settimane, la triplice svalutazione dello yuan aveva già messo Cina e Stati Uniti ai ferri corti, ma ora lo scontro sembra salire di livello. Anche perchè Washington non ha offerto l'altra guancia. Anzi. Piccata la replica di William Dudley, presidente della Federal Reserve di New York: «I problemi non derivano dagli Usa, ma interamente dall'estero». Non essendo imputabile nulla all'Europa, e neppure al Brasile o al Ruanda, il colpevole è dunque la Cina.

Il palleggiamento di responsabilità fa comodo a entrambe le banche centrali. Tanto per cominciare, la crisi del Dragone c'è, eccome, e le tensioni legate alla stretta sui tassi nulla c'entrano con gli sconquassi borsistici, peraltro non ancora del tutto riassorbiti. I listini europei hanno chiuso ieri in rosso (-0,81% Milano, -1,7% Londra, -1,3% Francoforte) nonostante la buona tenuta di Wall Street (+1,5% alle 20 ora italiana). E se è vero, come sostiene Fitch, che è «probabilmente esagerato il pessimismo del mercato sulle prospettive economiche della Cina nel breve termine», è anche vero che le tante spie rosse non si possono sottovalutare. L'ultima è accesa da un rapporto di Oxford Economics sul rischio di bolle: in Cina quest'anno le concessioni di mutui sono salite del +17,6%, ma i prezzi reali delle case sono scesi del 5,3. Lo stock di credito erogato (e con i prezzi in calo difficile da rimborsare) è talmente elevato da far vacillare un intero modello economico e, di conseguenza, i mercati globali.

Le forti criticità del sistema economico dell'ex Impero Celeste sono però al tempo stesso l'alibi perfetto per la Fed per non toccare il costo del denaro. Ancora Dudley: un giro di vite ai tassi in settembre «ora è meno impellente» a causa dei «recenti sviluppi internazionali» (Cina sempre nel mirino, ndr) che hanno «aumentato i rischi al ribasso per l'economia». Il cerino acceso viene passato a Pechino, visto che l'esponente della Fed si dice «ragionevolmente fiducioso» che le autorità in Cina possano agire per sostenere la propria economia. Insomma: mentre l'economia Usa «va bene» (eppure, da un sondaggio Gallup, risulta che il 58% degli americani è convinto che la situazione «sta peggiorando»), motivi endogeni consigliano di mantenere lo status quo. Fino a quando? Dudley non lo dice, ma afferma che siamo «molto lontani» dal parlare di un nuovo programma di acquisto di titoli, come chiesto martedì scorso dall'ex ministro del Tesoro, Larry Summers. Il tema sulla necessità di un quarto round di quantitative easing è però stato introdotto e non uscirà presto di scena.

Chi invece parla apertamente di espandere il Qe in salsa europea è la Bce.

Dopo il vicepresidente Vitor Constancio, ieri è toccato a Peter Praet, uno dei componenti il board, ribadire che l'Eurotower è pronta a tutto pur di evitare i rischi di un ribasso dell'inflazione. Ma la Bundesbank, che dice?

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