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Petrolio, urne e referendum La fronda Pd si rianima: così vuol far cadere Renzi

Da Bersani e Cuperlo messaggi in codice al premier: scontro finale sulle riforme costituzionali. L'M5S scrive al Quirinale Amministrative, si voterà il 5 giugno

Petrolio, urne e referendum La fronda Pd si rianima: così vuol far cadere Renzi

Con il governo sotto schiaffo per l'inchiesta di Potenza e i suoi risvolti, poco giudiziari ma molto politici, la minoranza Pd annusa il sangue e prova a rialzare la testa e a cavalcare l'onda. Lanciando un avvertimento ancora ambiguo ma potenzialmente dirompente: nel referendum costituzionale, la madre di tutte le battaglie prevista per il prossimo autunno, un pezzo del Pd potrebbe schierarsi (insieme a Grillo, Salvini, Berlusconi) per il no alla fine del bicameralismo.

È il succo politico di un'intervista nella quale l'ex leader Pier Luigi Bersani ne dice di tutti i colori: che Matteo Renzi ha «desertificato il Pd», chiudendosi in un «arrogante isolamento»; che Palazzo Chigi ha «espropriato i ministeri a livello politico e burocratico»; che il premier «non ha il fisico per sradicare dai nostri valori» gli ex Pci. Insinua che la Boschi dovrebbe dimettersi: «Io non reggerei quel genere di disagio», dice a proposito delle vicende che coinvolgono il padre. Sul referendum no-triv dice che andrà a votare no (anche perché altrimenti il partito emiliano, saldamente schierato contro il referendum, lo costringerebbe ad emigrare), ma su quello costituzionale lancia una velata minaccia: «Dovremo chiarirci: ci sono caveat insuperabili quando si parla di plebisciti o nuovi partiti». Frase che di per sé non vuol dire nulla, ma che la dice lunga sulle intenzioni di un pezzo di Pd. Che non può, ovviamente, schierarsi apertamente contro una riforma che è il manifesto del Pd e del governo di Renzi, e che peraltro la minoranza ha votato: equivarrebbe mettersi fuori dal partito, e a sancire la scissione. Cosa che Bersani e i suoi non vogliono, perché la speranza è semmai quella di indebolire e costringere alla resa il premier, puntando sia su una sconfitta alle elezioni amministrative - si vota il 5 giugno, la speranza della fronda Pd è che Napoli, Roma, Torino e possibilmente anche Milano vengano perse - che sul bailamme giudiziario, per togliergli di mano il partito e il governo, e svuotare a quel punto il referendum di ottobre di ogni valenza. Non a caso il dalemiano Gianni Cuperlo ieri ha chiesto, con linguaggio da Prima Repubblica, «una verifica di governo» e di «maggiore collegialità» contro la «eccessiva concentrazione di potere».

Il premier, alle prese con il Def, nella sua enews di ieri ha ribadito la linea sull'inchiesta: «Se ci sono problemi, si bloccano i colpevoli e non le opere». Annuncia che oggi sarà di nuovo a Napoli per iniziative di governo, nonostante le manifestazioni violente avallate dal Comune, con «assessori scesi in piazza» e lanci di «sassi e bottiglie». E poi attacca duramente i Cinque Stelle e le loro «incredibili e squallide accuse». Ieri infatti è partita una nuova querela verso il grillino Carlo Sibilia («Famoso per aver detto che l'uomo sulla luna era un'invenzione degli Usa», lo irride il premier), che ha bollato il governo come «camorrista». «Ne risponderà in tribunale, e son certo che rinuncerà al privilegio dell'immunità parlamentare», dice Renzi.

Tra insulti, querele e mozioni di sfiducia lo scontro tra Pd e grillini è a tutto campo, e i seguaci dell'ex comico cercano di tirarci dentro anche il Quirinale. Con una lunga lettera, che in un italiano incerto riprendere le invettive via blog di Grillo, i parlamentari Cinque Stelle chiedono infatti un incontro con il presidente della Repubblica, per spiegargli che siccome loro «intravvedono» quelli che ritengono essere «i primi segnali di una nuova Tangentopoli», vorrebbero «partecipare» a Mattarella «tutta la preoccupazione» in materia. Poi i grillini si lamentano che la discussione e il voto delle mozioni di sfiducia «in cui è racchiuso tutto il nostro sdegno» si votino il 19 aprile, e chiedono che vengano esaminate prima del voto sulla riforma costituzionale, all'esame della Camera: secondo loro, «un governo appeso a un filo non può fare riforme». Poi annunciano di essere pronti a votare «qualsiasi mozione», comprese quelle del centrodestra, per cercare di unire tutti i voti di opposizione.

Prospettiva che non preoccupa granché il governo, che solo due giorni fa al Senato ha incassato ben 171 voti nella fiducia su un provvedimento delicato come il decreto banche.

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