Politica

"Piuttosto che" mettere una virgola diamo del lei a Eco

Parliamo tanto di grammatica perché non la studiamo più

"Piuttosto che" mettere una virgola diamo del lei a Eco

La situazione è grammatica, come recita il titolo del libro di Andrea De Benedetti, uno dei numerosi volumi dedicati ai più comuni errori degli italiani. In effetti, si parla molto di come si dovrebbe scrivere. Non è solo questione dei vari rapporti, talvolta contradditori almeno all'apparenza, firmati da istituzioni nazionali ed internazionali sulle nostre scuole. E non è solo questione di cronaca, con prestigiose università, Pisa l'ultima in ordine di tempo, che aprono corsi di italiano-base per ovviare all'analfabetismo di ritorno di troppi laureandi. Il dibattito sulle regole è aperto sulle pagine dei quotidiani e nei siti, come quello frequentatissimo della Accademia della Crusca, la Cassazione in materia.

Andrea Scanzi, sul Fatto quotidiano, lancia una sacrosanta crociata contro l'uso di «piuttosto che» come sinonimo di «oppure». Anche la Crusca ha preso posizione contro «l'abominio» linguistico: «Si tratta di una voga d'origine settentrionale, sbocciata in un linguaggio certo non popolare e probabilmente venato di snobismo». «Piuttosto che» significa «anziché». Punto e basta. A proposito di punteggiatura, domenica la Lettura , l'inserto culturale del Corriere della Sera , dedicava due pagine alla sua evoluzione. Un tempo si oscillava, scrive Giuseppe Antonelli, tra punteggiatura per l'orecchio (che riproduce le pause del discorso) e quella per l'occhio (attenta alle pause logiche e sintattiche). Oggi si fa strada invece una punteggiatura emotiva con implicazioni «più che linguistiche, psicologiche». In altre parole: le regole della grammatica sembrano sospese in favore di una percezione «soggettiva». E vai di lineette, puntini di sospensione, punti esclamativi. Con l'aggiunta di un nuovo segno di interpunzione: il cancelletto, o hashtag che dir si voglia, proveniente dal linguaggio dei social network. #grammaticastaiserena .

È una questione grammaticale, ma anche di educazione, quella posta da Umberto Eco ieri su Repubblica . Ormai si sente dare del «tu» a tutti, cosa impensabile almeno fino agli anni Settanta, quando si insegnava, sussidiario alla mano, che «i pronomi allocutivi reverenziali o di cortesia» ammessi dall'Italiano sono Ella o Lei o Voi. A cosa è dovuto il passaggio in massa al «tu»? Siamo diventati tutti quanti alla mano? No, il «tu» è un cattivo retaggio della traduzione dell'inglese «you». In realtà, scrive Eco, l'inglese distingue tra «You John», tu John, famigliare, e «You Madame», voi signora, formale. Leggendario l'aneddoto raccontato dai cronisti del Corriere all'epoca della direzione di Giovanni Spadolini. Un giornalista, incontrato il riservato Spadolini, lo saluta: «Ciao direttore». Sguardo perplesso di Spadolini. Giornalista: «Scusa, mi sono permesso di darti del tu come si fa tra colleghi, posso vero?». Spadolini: «Faccia lei».

Dunque la grammatica interessa. Oltre al libro di De Benedetti, edito da Einaudi, citato nell'apertura di questo articolo, ricordiamo almeno la fortunata serie di Giuseppe Patota e Valeria Della Valle, capace di mandare in classifica il saggio Viva il congiuntivo! Come e quando usarlo senza sbagliare (Sperling&Kupfer). Le opinioni sono molto diverse. De Benedetti, ad esempio, vede nell'errore anche la prova della vitalità della nostra lingua. Resta da chiedersi il motivo di tanta attenzione. E se fosse da mettersi in relazione con una generale carenza di competenze linguistiche, che si manifesta durante gli anni scolastici per colpire senza pietà nei decenni successivi? I ricordati corsi di grammatica per laureandi sembrerebbero accreditare questa spiegazione. I vecchi programmi ministeriali, quando descrivevano le linee guida sull'apprendimento della grammatica, si perdevano in disquisizioni para-filosofiche che lasciavano perplessi. Per molti anni, si è prescritto che il maestro, più che insegnare le regole, facesse maturare nello studente la coscienza della loro esistenza. La grammatica dunque come «sollevamento a livello consapevole di fenomeni» che l'alunno sarebbe «già in grado di produrre o percepire». Le recenti Indicazioni nazionali, meno compromesse col «didattichese» e più attente al buonsenso, hanno cambiato qualcosa, ma includono comunque il concetto di «grammatica implicita» posseduta da ogni persona fino dall'infanzia. Un po' fumoso e forse insensato nel caso ormai diffuso di allievi stranieri.

I risultati? Statistiche a parte, chi insegna forse potrà testimoniare che in quinta superiore oggi non è raro imbattersi in errori di grammatica un tempo comuni in quinta elementare.

Commenti