Politica

Il prof che non può dormire mette San Dante sugli altari

Ha incantato Benigni e portato la «Divina Commedia» dalla Siberia al Brasile «Troppi colleghi la considerano morta: le fanno l'autopsia invece di spiegarla»

Franco Nembrini aveva appena 11 anni quando fu mandato in esilio, come Dante Alighieri. Da Trescore Balneario a Bergamo. Quarto di 10 figli, doveva procurare qualche soldo perché suo padre, tornitore, s'era ammalato di sclerosi multipla. «Lavoravo come garzone in una rosticceria. I padroni mi davano da mangiare e da dormire. Una sera stavo per andare a letto, stanco morto: ebbi l'ordine di scaricare un furgone appena arrivato. Mi ritrovai a portare giù in cantina, da solo, casse e casse di acqua minerale e di vino. All'improvviso mi ricordai di una terzina della Divina Commedia. Sì, lo so che oggi sembra strano a dirsi, ma giuro che vi fu un tempo, in Italia, nel quale alla scuola media si studiava e s'imparava. Mi risuonarono nella testa le parole con cui il trisavolo Cacciaguida, nel XVII canto del Paradiso, preannuncia a Dante che da Firenze andrà in esilio a Verona, alla corte di Bartolomeo della Scala: “Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e 'l salir per l'altrui scale”. Tu proverai quanto ha sapore amaro il pane mangiato alla mensa di altri e quanto è umiliante cammino lo scendere e il salire per le scale altrui». Il ragazzo scoppiò a piangere. «Di gioia: mi sentii capito da qualcuno che aveva provato quegli stessi sentimenti prima di me».

Da allora - era il 1966 - Nembrini considera il Sommo Poeta il suo patrono. Gli ha consacrato la vita. Studi. Libri. Letture. Conferenze. Dipendesse da lui, metterebbe il Belpaese sotto la protezione di San Dante, più che di San Francesco. Ha portato la Divina Commedia in tutte le Russie, fino in Siberia, e in Ucraina, Kazakistan, Ungheria, Spagna, Sierra Leone, Brasile. Roberto Benigni lo considera un po' il suo maestro. «Altolà, chiariamo subito. Semplicemente il Lunedì dell'Angelo del 2004, mentre mi trovavo in Africa, squillò il cellulare: “Sono Roberto Benigni”. Pensai al genitore di un alunno. Dall'altra parte un urlo in toscano: “Ma 'osa dici? Sono l'attore!”. Aveva divorato in una sola notte i miei tre libretti Alla ricerca dell'Io perduto e mi voleva incontrare. Da allora siamo rimasti amici. Benigni è un attore che recita magnificamente, io un insegnante che spiega. Facciamo due mestieri diversi». Mica tanto, visto che le sue teorie sulla santità dell'Alighieri sono state riversate in un recital di quattro puntate, della durata di 90 minuti ciascuna, registrate al teatro Out Off di Milano e tradotte in altrettanti dvd per un cofanetto intitolato El Dante. «Un mio collega in Sicilia lo ha presentato come la Divina Commedia recitata in bergamasco. Pota! A momenti veniva giù la sala». Errore fatale giacché ben pochi al mondo, Nembrini a parte, sanno che nel Trecento fu quello, El Dante, il nome familiare con cui per mezzo secolo i fiorentini conobbero e impararono a memoria la Comedìa, cui soltanto più tardi il Boccaccio appose l'aggettivo che tutta la critica considera appropriato, Divina. Ora El Dante arriva per la prima volta in televisione, nel 750° anniversario della nascita: da domani sera, per quattro lunedì consecutivi, alle ore 21, su Tv2000 (canale 140 di Sky). Che, se non è una beatificazione, poco ci manca, trattandosi della tv dei vescovi.

La convinzione che il «ghibellin fuggiasco» debba essere elevato alla gloria degli altari si è rafforzata in Nembrini dopo una complicata ricerca numerologica che ha compiuto incrociando gli studi del dantista Charles Singleton con il quadrato del Sator, la misteriosa iscrizione palindroma di cinque parole latine intersecate fra loro (sator, arepo, tenet, opera, rotas), le quali nella simbologia cristiana formerebbero un Paternoster. Non disponendo di una seconda pagina per sviluppare l'affascinante argomento, rimando a El Dante. Qui basterà dire che lo studioso di Trescore Balneario è potuto giungere alle sue sorprendenti conclusioni in seguito a una malattia genetica che, impedendogli di dormire la notte, lo costringe a camminare in continuazione e a ingannare il tempo con la lettura. «Si chiama restless legs syndrome, sindrome delle gambe senza riposo. A 48 anni ha colpito sia me che una mia sorella. Non c'è cura. I medici mi danno i farmaci utilizzati contro il morbo di Parkinson. Dicono che dovrei essere già morto. Hanno analizzato per 100 giorni il mio dormiveglia: la media è stata di 2 ore e 3 minuti di sonno per notte. In pratica i dolori alle gambe m'impediscono di stare coricato. E guai se dormo di giorno: la sindrome peggiora. Fa' conto di parlare con un narcolettico. Non posso più guidare: l'abbiocco è sempre in agguato».

Quattro anni fa Nembrini ha anche dovuto smettere d'insegnare. Un sacrificio immane. Laureato in pedagogia alla Cattolica con 110, si considera figlio d'arte in quanto il padre invalido trovò posto come bidello. Finita la terza media, giurò alla professoressa Clementina Mazzoleni, che gli aveva fatto amare Dante: «Da grande diventerò insegnante d'italiano». Così ha fatto. Oggi è rettore del centro scolastico paritario La Traccia di Calcinate, frequentato da 1.000 studenti. Anche i due figli maggiori insegnano lettere; il terzogenito ha studiato arabo al Cairo; l'ultimo, laureato in scienze politiche, sta per diventare mastro pastaio: «Professore in spaghetti».

Quattro figli sono un bell'impegno.

«Quando a mia madre chiedevano perché ne avesse messi al mondo così tanti, ben 10, rispondeva: “Perché ci siamo voluti tanto bene”. E mio padre, siccome era del '24 come lei, sorrideva: “Insieme abbiamo fatto un 48”».

Se gli nomini Dante, gli studenti sbuffano. Fosse San Dante, peggio ancora.

«Una studentessa ventenne mi ha chiesto il significato del vocabolo seminarista. A Bergamo, ti rendi conto?».

Pieralvise Serego Alighieri, ultimo erede del Sommo Poeta, mi ha confessato che la Divina Commedia a scuola fu «una gran rottura di scatole». E ha aggiunto: «Però molto dipende da come te la spiegano».

«Ha capito tutto. Per far innamorare un ragazzo, devo presentargli una bella fanciulla, viva, a cui poter correre dietro. Se invece gliela esibisco dissezionata sul tavolo dell'obitorio, vomita. Ho colleghi che considerano l'opera letteraria morta in partenza e le fanno l'autopsia. Perciò, quando devo assumere un docente, verifico che abbia un grande amore per sé stesso e che sia curioso della vita. Chi non ha nulla da imparare, non ha nulla da insegnare».

Secondo lei perché San Dante non figura nel calendario liturgico?

«La battuta è datata: ha messo troppi preti nell'Inferno. Non glielo perdonano».

Ma è proprio sicuro che abbia raggiunto la santità?

«La cercava». (Ci riflette). «Sì, l'ha raggiunta. Non avrebbe impugnato la penna per scrivere un “poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra”. Parla così un profeta che abbia ricevuto una grazia speciale. Alla fine della sua opera ti dice d'aver visto Dio e prova a raccontarti com'è. Oh, ragazzi! Noi confondiamo la santità con una coerenza etica impossibile. Vediamo il santo come colui che si martella i didimi, digiuna, non copula, insomma fa una vita di merda».

Devo avvertirla che io scrivo tutto.

«Scrivi, scrivi, sai quante volte mi tocca sgagnarmi la lingua quando mi chiamano a leggere Dante in chiesa? Io ho una concezione esattamente opposta: il santo è quello che si gode la vita, “sì che 'l sommo piacer li si dispieghi”, dice San Bernardo nella preghiera alla Vergine».

Perché Dante è amato in Russia, in Africa, ovunque?

«Perché, come Giacomo Leopardi, parla al cuore dell'uomo nella sua universalità. Due esempi. Conferenza con interprete a Charkiv, Ucraina. Dopo un secolo di ateismo, mi tocca illustrargli che cosa siano inferno, purgatorio e paradiso. Alla fine chiedo a Oleg, sofferente di nanismo e cieco, di che cosa ha più bisogno. E lui risponde, in lacrime, con l'ultimo verso dell'Inferno: “Riveder le stelle”. Mi ha levato la pelle».

Secondo esempio?

«Collegio docenti a Karaganda, Kazakistan. Mi sovviene d'avere di fronte i pronipoti del pecoraio khirgiso che ispirò a Leopardi il Canto notturno d'un pastore errante dell'Asia. Glielo recito: “Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna”. Gelo totale. Penso fra me: non hanno capito una mazza. Si alza una signora velata - musulmana, presumo - e dice piangendo: “Quel pastore sono io”. Poi si rimette a sedere. Io tornerò a Karaganda per quella donna lì. Lo faccio, eh!».

La Divina Commedia è stata un incubo per intere generazioni di studenti, anzi lo è ancora. Come si spiega?

«Con la censura. I laicisti hanno espunto dalla scuola tutto ciò che è cristiano».

Non starà esagerando?

«Esagerando? Ma lo sai che quando lavoravo in una scuola statale della provincia di Bergamo mi serviva una delibera del collegio docenti per poter insegnare la Commedia in quinta? Nei giorni scorsi ero a Ravenna e mi hanno riferito che neppure lì, dove Dante è sepolto, lo si studia in tutte le classi».

Da chi ha imparato di più nella vita?

«Penso a mio padre. Si occupava della sua santità, non della mia. Non mi ha mai chiesto di diventare un altro: gli andavo bene com'ero. A 15 anni avevo smesso di andare in chiesa. La sua fede finì per incuriosirmi. Spiego sempre ai genitori che c'è una sola regola per educare i figli: lasciarli stare. Non pretendete di cambiargli la testa. Stimateli per ciò che sono e la cambieranno da soli».

A chi altro pensa?

«A don Luigi Giussani. Nel 1970 venne a conoscere i miei genitori perché una figlia, Miriam, voleva farsi suora di clausura. Seppe così che Angelo, il primogenito, aveva abbandonato il seminario, era diventato ateo e militava nell'ultrasinistra. Dopo una settimana, il postino ci recapitò uno scatolone spedito da don Giussani e indirizzato ad Angelo: dentro c'erano tutti i libri che potevano piacere a mio fratello, tipo Il Capitale di Karl Marx per capirci; ne ricordo uno di Giovanni Senzani, poi entrato nelle Br. Ed erano il dono di un prete che ogni giorno vedeva i suoi ragazzi picchiati dai rossi all'università e nelle scuole. Mi dissi: quest'uomo ha qualcosa di divino, perché solo Dio è capace di un perdono così. Si chiama misericordia: ti dà la vita senza prima chiederti di cambiare. Giussani faceva questo. Entrare in Comunione e liberazione fu inevitabile».

Non è che la Divina Commedia per lei sia più importante del Vangelo?

«Giusto rilievo. Se dovessi portarmi un solo libro su un'isola deserta, temo che fra la Bibbia e la Commedia sceglierei la seconda, perché mi racconta le esperienze di un uomo che le cose contenute nella Sacra Scrittura le vive per davvero. Questo mi è stato chiaro in prigione».

In che senso?

«Vado a parlare di Dante ai detenuti di Bergamo, Opera, Como. Nel carcere di massima sicurezza di Padova, quasi tutti ergastolani, ho potuto farlo solo per 10 minuti. Dopo una settimana, ancora lo leggevano. Hanno voluto comprare 250 copie dei dvd da regalare a tutti i penitenziari. Alcuni reclusi vivono nella loro carne il dramma del perdono di cui Dante parla per un'intera cantica e trasformano la cella della galera in una cella di monastero: si santificano lì».

Non crede che oggi tutto sia commedia e non rimanga nulla di divino?

«No. Molto sarà commedia. Molto sarà menzogna. Ma il divino non lo mettiamo noi: c'è comunque, anche se lo riconosciamo meno. Chi abbia occhi per osservare, scopre che tutto è divino».

«Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per una selva oscura». Più oscura di quella odierna...

«Oscura se chiudi gli occhi. La selva di Caino doveva essere ben più buia. Non sono i tempi peggiori quelli che viviamo. Ho letto una citazione riportata da un docente dell'Università di Oxford: “Questa gioventù è marcia nel profondo del cuore, non sarà mai come quella di una volta”».

Tratta da dove?

«Da un coccio d'argilla di Babilonia, risalente al 3.000 avanti Cristo. Vedi? Problema antico. Ce la caveremo anche stavolta».

Nel suo recente viaggio a Ravenna è stato sulla tomba di Dante?

«Secondo te? Ci vado sempre, con grande dolore. Il sogno della mia vita sarebbe quello di riportarlo a casa».

A Firenze?

«No, in chiesa. Basterebbe collocarlo nell'attigua basilica di San Francesco, in cui nel 1321 fu celebrato il suo funerale. Lo sai che nel sepolcro di Dante non vi è né una croce né un segno della pietà religiosa? Paolo VI, quando lo visitò, provò un tale dolore che volle donare un crocifisso d'oro alla città di Ravenna. Hanno buttato fuori di casa il più grande poeta del cristianesimo, è finito sulla strada come una puttana».

(749. Continua)

stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

Commenti