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Quell'odio che non indigna quando colpisce a destra

Se nel mirino finiscono politici e giornalisti non di sinistra tutto termina con un'alzata di spalle. Ecco i casi più recenti

Quell'odio che non indigna quando colpisce a destra

Ciò che manca al centrodestra, non inteso come coalizione politica ma come area culturale, è un paladino del politically correct. Uno di quei personaggi pubblici (spesso opinion maker, talvolta giornalisti, talaltra politici monomaniaci) pronto a sciorinare tutte le declinazioni dello sdegno per le offese, gli insulti e le frecciatine, al limite della diffamazione, che a destra si ricevono.

Perché a destra - si sa - la libertà (anche quella d'espressione) è un concetto caro, se non sacro. E se non c'è l'estremo della diffamazione si passa oltre con un'alzata di spalle. L'esempio più recente lo ha offerto Matteo Salvini. Il capo della Lega, ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo, quasi non ha fatto una piega quando la giornalista ha accennato alla pinguedine del leader leghista, considerando «inopportuno» esibirla mettendosi in costume da bagno. La replica di un Salvini più stupito che offeso è stata di puro buon senso: «In spiaggia mi metto in costume come tutti». E la cosa poteva morire lì e si sarebbe potuto rubricarla come gaffe poco opportuna di una giornalista. Però, ci fosse stato un paladino del politcally correct come quelli che hanno difeso la ministra Teresa Bellanova dalle frecciatine ironiche ricevute sui social (alcune lanciate da esponenti politici) per il suo gusto nella scelta dei vestiti e per la sua linea. «Non si può ironizzare sull'aspetto fisico di una persona, anche se è un personaggio pubblico». Questo il senso delle critiche che si sono levate in difesa della Bellanova. Principio sacrosanto, aggiungeremo noi. Però nessuno di quei paladini, è intervenuto in favore del girovita del leader leghista, sbertucciato con classe (ma anche con sprezzante alterigia), dalla Gruber.

Pochi giorni fa è stata Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, a finire sulla graticola della ironia tutta radical chic di una delle più brillanti firme di Repubblica. La Meloni - scrive Merlo - è «invece la reginetta, sì ma di Coattonia, che è appunto la sua Wonderland, la periferia delle meraviglie dove la nostra peronista scalza corre ad ogni spasmo di rabbia sociale come fece a Torre Maura per difendere e organizzare le rivolte contro i rom». Peccato che a Torre Maura la Meloni non si sia mai fatta vedere. E che lì non abbia cavalcato alcuna rivolta sociale.

La leader di Fratelli d'Italia si è risentita e ha risposto che, appunto, erano palesi bugie. Ma nessun paladino è intervenuto a difenderla da quella descrizione («reginetta di Coattonia») che non fa certo bene a un giornalismo equilibrato e serio. Ironizzare in maniera sprezzante sulle origini di una persona non dovrebbe essere l'opposto del politically correct? Eppure nessun paladino di questa forma di autocensura «buonista» è intervenuto in favore della Meloni.

Figurarsi se la squadra dei soliti noti abbia sussurrato il più flebile mugugno contro la gratuità degli insulti di Grillo. Come quello rivolto a Salvini («tua madre quella sera doveva usare la pillola»). Offendere una donna in ciò che di più caro ha, ovvero la sua maternità, non dovrebbe essere l'onta peggiore? Eppure non una parola. Non un moto di protesta.

Ma sono tanti i politici o i giornalisti che hanno subito l'onta dell'insulto gratuito per il loro carattere o per caratteristiche fisiognomiche senza che l'allarme rosso del politically correct si accendesse mai nemmeno una volta. Renato Brunetta è dovuto ricorrere alla magistratura per combattere questa gratuita e continua diffamazione. Certo a difenderlo non sono stati i tanti intellettuali à la page che si sdegnano per le ironie sulla Bellanova. «Le parole violente sono già violenza». Parola proprio di Lilli Gruber (l'altra sera ospite di Formigli) che però di fronte alle pesanti ironie di D'Alema («energumeno tascabile») e Furio Colombo («mini-ministro»), all'indirizzo di Brunetta, nemmeno un sospiro di disappunto.

Anche Maurizio Gasparri si è sempre difeso da solo. Senza nessun avvocato d'ufficio dell'intellighentia di sinistra. Il suo strabismo è spesso finito nel mirino di comici e avversari. Ma per l'ex ministro del governo Berlusconi il codice Bellanova, ovviamente non vale. Stessa sorte e stesso silenzio quando nel mirino del sarcasmo sono finiti personaggi del calibro di Umberto Bossi (pure dopo l'ictus), Giuliano Ferrara, Vittorio Feltri (cui la Gruber ha dato del «poveretto in andropausa») e Alessandro Sallusti (di cui Travaglio ha detto: «Capiamo la sua angoscia. Dev'essere terribile specchiarsi la mattina e vedere quella faccia)».

E le femministe, con il loro agguerrito codice d'onore? Dissero qualcosa quando Sabina Guzzanti diffamò (durante un comizio nel 2008) Mara Carfagna, all'epoca ministro alle Pari opportunità? Nemmeno una parola. Nella sua invettiva l'attrice disse che era uno «sfregio» mettere la Carfagna alla guida di quel ministero. Con insinuazioni che si riferivano alla sfera privata della parlamentare azzurra.

E i giudici - ma soltanto loro - affermarono che certe falsità proprio non si possono dire.

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