Cronache

Il reggae ora è patrimonio dell'umanità

Non è solo musica ma pure religione e trasgressione. Bob Marley «il profeta»

Il reggae ora è patrimonio dell'umanità

Qualcosa di più di un semplice ritmo di danza esotica originaria della Jamaica. Il reggae - soprattutto grazie a Bob Marley - è una religione e un culto collettivo ed è stato un movimento importante per lo sviluppo politico della società jamaicana. Molti, anche i bianchi che lo giudicavano una sottocultura commerciale, ne hanno riconosciuto il ruolo «culturale».

Oggi addirittura il reggae viene premiato dall'Unesco e diventa ufficialmente «Patrimonio immateriale dell'umanità». La musica di Jimmy Cliff (Rivers of Babylon l'hanno ballata tutti), Dennis Brown e Bob Marley (seguito dal figlio Ziggy) «ha contribuito al dibattito internazionale su ingiustizia, resistenza, amore e umanità». Un movimento che riunisce in sé l'elemento cerebrale, socio-politico, sensuale e spirituale, continua il comunicato dell'Unesco. Gran parte del merito va a Bob Marley, la prima vera superstar del Terzo Mondo (anche se i bluesmen degli anni Venti come Robert Johnson hanno giocato un ruolo di straordinaria importanza sullo sviluppo del rock and roll bianco) in grado di unire religione, politica e trasgressione. Il concerto milanese a San Siro del 1980 è rimasto un'esperienza indelebile negli occhi dei quasi centomila che vi parteciparono. Il reggae predica il Rastafarianismo, culto che venera l'ex imperatore d'Etiopia Hailè Selassiè, che considera la marijuana (detta «ganja») una sorta di sacramento, e che predica il ritorno di tutti i neri da «Mamma Africa».

Il reggae era musica sociale dei neri, che per il suo ritmo e per le sue istanze sociali aveva conquistato anche i bianchi. Addirittura negli anni Ottanta il reggae venne adottato da un numero impressionante di gruppi misti, neri e bianchi e - come sottolinea Gary Herman nel saggio Rock'n'Roll Babylon, «attirò l'attenzione di gruppuscoli neonazisti in Gran Bretagna». Ma furono fenomeni che non hanno mai intaccato l'integrità del reggae, inteso e valorizzato come una sorta di messa pagana (provate ad ascoltare, o a immaginare cosa potesse essere dal vivo un brano come No Woman, No Cry).

Il reggae è vita e Bob Marley è il suo profeta; integerrimo, carismatico, rockstar senza scettro che amava il suo pubblico in modo viscerale. Credeva in ciò che faceva Marley. Tanti furono i tedofori della cultura popolare nera messa in musica. Prendiamo il grande James Brown, che a ritmo di funky trascinava i suoi seguaci scandendo il testo di Say It Looud I'm Black I'm Proud («Ditelo forte, sono nero e ne sono fiero») o l'incandescente Get Up Sex Machine e poi appoggiava la campagna presidenziale di Richard Nixon, Marley cantò l'inno di battaglia Get Up Stand Up per il primo ministro socialista jamaicano Michael Manley, e per questo fu ferito a colpi d'arma da fuoco nel 1976.

Morì cinque anni dopo, di cancro ai polmoni, e ora l'Unesco mette al giusto posto la sua opera: un tesoro popolare.

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