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Riina resta al carcere duro: non mi pento

No dei giudici ai domiciliari. E alla famiglia sequestrati beni per 1,5 milioni

Foto d'archivio
Foto d'archivio

Non si è mai pentito. Nemmeno ora che è malato e sente il bisogno di stare vicino ai suoi. Il capo dei capi, Totò Riina, resta detenuto al 41bis. Lo ha deciso il tribunale di Sorveglianza di Bologna che ha rigettato la richiesta di differimento pena o, in subordine, di detenzione domiciliare, avanzata dai suoi legali, motivata da ragioni di salute del boss, a cui si è opposto il pg di Bologna Ignazio De Francisci, che per anni ha lavorato a Palermo.

«Non potrebbe ricevere cure e assistenza migliori in altro reparto ospedaliero, ossia dove ha chiesto di fruire della detenzione domiciliare» secondo i giudici e a Parma, in una stanza «dotata di tutti i presidi medici e assistenziali necessari alla cura di una persona anziana», malata hanno osservato - è tutelato il suo diritto alla salute. Per i difensori «è un'ordinanza ampiamente impugnabile» in sede di Cassazione.

Ha avuto il suo peso il colloquio video registrato di Riina con la moglie Antonietta Bagarella il 27 febbraio. «Io non mi pento...a me non mi piegheranno». E «Io non voglio chiedere niente a nessuno. Mi posso fare anche 3.000 anni no 30 anni». Frasi riportate nell'ordinanza di rigetto dell'istanza, insieme con l'affermazione dei coniugi Riina che «i collaboratori di giustizia vengono pagati per dire il falso».

Ha avuto il suo peso anche il fatto che Riina non ha mai perso il suo ruolo di leader. «È ancora in grado di intervenire nelle logiche di Cosa Nostra». «La lucidità palesata e la tipologia dei delitti commessi in passato (di cui è stato spesso il mandante e non l'esecutore materiale) scrivono i giudici - fanno sì che non si possa ritenere che le condizioni di salute complessivamente considerate, anche congiuntamente all'età, siano tali da ridurre del tutto il pericolo che lo stesso possa commettere ulteriori gravi delitti (anche della stessa indole di quelli per cui è stato condannato)».

La decisione arriva nel giorno in cui i carabinieri del Ros e del Comando provinciale di Palermo e Trapani hanno effettuato un sequestro beni riconducibili a Riina, alla moglie e ai figli Giuseppe, Salvatore, Maria Concetta e Lucia per 1,5 milioni. Società, ville, 38 rapporti bancari e terreni a Palermo e Trapani. A far scattare l'inchiesta sono stati i redditi dichiarati da Riina e dai congiunti, che hanno fatto ipotizzare l'utilizzo di risorse finanziarie illecite. Ed è emersa una continuativa disponibilità di contanti della famiglia, in particolar modo della moglie che, malgrado i sequestri di beni subiti e a fronte dell'assenza di redditi, ha emesso dal 2007 al 2013 assegni per oltre 42mila euro a favore dei congiunti detenuti.

Il sequestro comprende anche la villa a Mazara del Vallo, in cui, nei periodi estivi, Riina avrebbe trascorso la latitanza con la famiglia. Dopo la cattura nel gennaio del 1993, il boss l'ha ceduta al fratello Gaetano con un fittizio contratto di locazione. Nel gennaio del 1984 Gaetano subì la confisca con provvedimento del giudice Alberto Giacomelli di Trapani. I corleonesi lo uccisero il 14 settembre 1988. Per l'omicidio Riina è stato condannato all'ergastolo. Sono stati individuati beni in provincia di Lecce e Brindisi intestati ad Antonino Ciavarello, genero di Riina.

E il tribunale di Palermo ha sottoposto ad amministrazione giudiziaria per 6 mesi l'azienda agricola dell'ente Santuario Maria Santissima del Rosario di Corleone, per un terreno gestito dai Riina.

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