Politica

Saluti a Torino e ai sindacati. La Fiat se ne va

La miopia della Fiom e la mentalità italiana che odia il capitalismo hanno costretto Marchionne a espatriare. Tanti attaccano l'ad, ma Roma dovrebbe fare mea culpa

Saluti a Torino e ai sindacati. La Fiat se ne va

Addio Torino bella, addio lavoratori (specialmente quelli della Fiom). La Fiat, sbrigata l'ultima pratica nella città dove è nata, cresciuta e ha rischiato la morte sotto lo sguardo indifferente e cinico del cosiddetto Avvocato (alias Gianni Agnelli, l'elegantone), trasferirà la propria sede legale in Olanda e quella fiscale a Londra. La produzione in gran parte è già stata spostata da parecchio tempo negli Stati Uniti (e in vari luoghi) in seguito alla fusione con la Chrysler, da cui il nuovo logo Fca (Fiat Chrysler automobiles), che ha consentito alla fabbrica automobilistica piemontese, anzitutto, di salvarsi dalle grinfie di un sindacato orbo, ma mordace, e di diventare un colosso internazionale.

Molti compatrioti hanno arricciato il naso davanti a simili operazioni, altri hanno protestato, altri ancora hanno accusato di ingratitudine la famiglia Agnelli e derivati. Ciascuno dice la sua, legittimamente, e la Fiat altrettanto legittimamente fa i propri interessi. Il regno delle quattroruote ammaina la bandiera tricolore ed espatria trasformandosi in un impero, di lamiera. Complimenti all'eroe dei due mondi che ha conquistato appunto un paio di continenti. Ci riferiamo a Sergio Marchionne, antipatico, bravissimo e di successo. Un Fenomeno col maglione (che, di solito, non è l'indumento dei fenomeni).

Quest'uomo è diabolico. Mentre i suoi colleghi dirigenti industriali sono partiti da una discreta ricchezza e hanno finito per globalizzare la miseria, lui è l'unico italiano che, pur guidando un'azienda ridotta a rottame dai suoi predecessori, è riuscito a globalizzare l'opulenza. Nonostante ciò, c'è ancora qualcuno che lo considera un pescecane. Una stupidaggine. Marchionne è stato il primo ad aver capito che nel Belpaese il capitalismo è giudicato male, una derivazione dello sterco del diavolo, da schifarsi; peggio: da eliminare.

I tribuni della plebe da mezzo secolo lanciano anatemi contro chi intraprende. Pensano ancora che ogni patrimonio e ogni ditta discendano da un furto impunito, e si impegnano per distruggerlo e fare sommaria giustizia. Ignorano o fingono d'ignorare che uccidere le imprese significa uccidere le buste paga, i posti di lavoro. D'altronde, a loro del lavoro non importa nulla, non hanno mai lavorato, limitandosi a sfruttare le maestranze in buona fede o affette da dabbenaggine.

La stupidità ha ingigantito un sistema che non solo impedisce la crescita (da tutti agognata e da nessuno favorita), ma rade al suolo, sistematicamente, quel poco rimasto in piedi nella nostra sinistrata economia. Marchionne, dieci minuti dopo essere stato issato al vertice della Fiat, si è reso conto che cambiare la mentalità italiota (un misto di comunismo residuale e di pauperismo dossettiano) era impossibile, e ha rinunciato alla rieducazione degli assenteisti cronici degli stabilimenti eretti nel Mezzogiorno con l'aiuto di uno Stato illuso di essere in grado d'esportare l'industria nelle zone depresse.

L'amministratore delegato, consapevole che in un duello con gli indolenti sindacalizzati sarebbe uscito sconfitto, ha preferito andarsene in America - insalutato ospite - con la fabbrica sulle spalle. Qui da noi ha lasciato qualche appendice di opificio per rispettare le forme, ma senza confidare negli organici rimasti allo scopo di ottenere un adeguato sviluppo. Gli hanno dato del matto. Invece i matti erano coloro che lo denigravano, trascurando il fatto che i capitali vanno dove conviene e non dove si «chiagne e fotte».

Conosciamo i rimproveri che si muovono alla Fiat, agli Agnelli in particolare: hanno socializzato le perdite e incassato i dividendi, hanno mangiato soldi pubblici in quantità e hanno ricambiato abbandonando la nave un attimo prima che affondasse, hanno succhiato miliardi dalla cassa integrazione guadagni e ora, invece di ringraziare, fanno il gesto dell'ombrello a chi li ha sostenuti. Chiacchiere. È vero che Torino ha chiesto, ma Roma ha dato. Non sbaglia mai chi bussa, semmai sbaglia chi apre. Chi ha aperto? Fuori i nomi e i cognomi dei politici che hanno concesso quattrini senza garanzie. Questi sono i colpevoli, e l'hanno fatta franca.

Si dà poi il caso che da quando in tolda c'è Marchionne, il colosso piemontese non si è avvalso di un euro pubblico. L'ad si è arrangiato in proprio. Non gli si può imputare di aver munto lo Stato. Egli ha il diritto di dire: chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto, scurdammoce 'o passato. Il dirigente in maglione ha svoltato, mutato stile: sta sul mercato, usa mezzi e metodi leciti, non deprecabili. Ed è forse questo il motivo per cui c'è chi non lo sopporta. Gianni Agnelli vendette una quota d'azienda a Gheddafi e nessuno osò rimproverarlo. Licenziò Vittorio Ghidella, che era un ingegnere coi fiocchi, e tutti tacquero. La fabbrica sfornava modelli scadenti? Bocche chiuse.

La Fiat era un disastro, adesso è un fiore. Ma quando tirava gli ultimi stava sugli altari; adesso che vola alto, la vorrebbero nella polvere. D'accordo, Maurizio Landini sarà anche una brava persona, ma pendere dalle sue labbra è assurdo.

Il fatto che quella in corso sia l'ultima assemblea Fiat organizzata in Italia può dispiacere, però dispiace ancora di più che neanche un cane romano reciti il mea culpa.

 

Commenti