Cronache

Se le navi di soccorso trasformano il Mediterraneo in un «cimitero»

I trafficanti promettono viaggi sicuri: 11mila morti in 3 anni

Se le navi di soccorso trasformano il Mediterraneo in un «cimitero»

Seicento bambini morti tentando di oltrepassare il Mediterraneo dal primo gennaio al 26 settembre di quest'anno. Undicimila e 400 vittime inghiottite nello stesso mare da quel fatidico 3 ottobre 2013 quando la strage di 368 disgraziati naufragati davanti a Lampedusa trasformò la questione dei migranti in un caso europeo.

Il doppio dato - elaborato da «Save The Children» analizzando i dati raccolti dall'Alto Commissario per i Rifugiati delle Nazioni Unite - non è soltanto macabro e raccapricciante. Quelle cifre, rese pubbliche nel terzo anniversario del naufragio di Lampedusa, sono anche il simbolo del cinismo di quanti - da Bruxelles a Roma - hanno trasformato l'accoglienza indiscriminata in un dogma ideologico lucrando per motivi politici ed economici su sbarchi e assistenza ai migranti. Ma quelle due cifre, seppur terribili, sono anche utilissime per comprendere come la melassa del buonismo ideologico abbia soltanto contribuito a peggiorare il massacro.

A trasformare il Mediterraneo in un enorme cimitero concorrono, infatti non soltanto guerre e carestie, ma anche le retoriche del politicamente corretto. Per capirlo bastano i numeri. In quel fatidico 2013 nel Mediterraneo e nel Canale di Sicilia non opera nessuna missione navale finalizzata al salvataggio dei profughi. Eppure, nonostante le 368 vittime della singola catastrofe di Lampedusa, il numero totale dei morti in mare si ferma quell'anno a quota 644. Un dato già nefasto, ma comunque quantitativamente meno pernicioso di quelli registrati nei tre anni successivi. Nel 2014 quando davanti alle coste libiche operano a pieno regime le navi della missione italiana «Mare Nostrum» le vittime dei barconi e del mare diventano ben 1.304. E nel 2015 - quando «Mare Nostrum» viene sostituita dalla missione europea «Triton» costantemente affiancata dalla nostra Marina e dalla nostra Guardia Costiera - i morti salgono arrivando a quota 3.106. Un dato drasticamente peggiorato nel corso di quest'anno visto che già a fine agosto le statistiche del solo Canale di Sicilia registravano più 3.150 fra morti e dispersi. Il tutto nonostante la costante presenza davanti alle coste libiche delle navi gestite da Msf e altre organizzazioni umanitarie e di almeno tre missioni internazionali. Missioni internazionali che comprendono, oltre alle tre imbarcazioni dell'operazione «Triton» gestita da «Frontex», le cinque navi militari della missione navale europea Eunav For Med / Sophia e, infine, le cinque unità della missione militare italiana «Mare Sicuro» coinvolte, nonostante gli obbiettivi prettamente militari, anche nelle operazioni di soccorso.

Questi dati bastano a far comprendere come il moltiplicarsi delle missioni di salvataggio in mare abbia soltanto peggiorato la contabilità della tragedia. L'esistenza di una sinistra e costante proporzione capace di legare l'incremento delle vittime al proliferare delle operazioni in mare è presto spiegato. Le missioni navali, sfruttate dai trafficanti di uomini per offrire e garantire una traversata «sicura» ai «clienti» anche in caso d'incidente, si sono trasformate in una vera calamita capace di moltiplicare non solo il numero dei migranti e delle traversate, ma anche quello delle sciagure. Lo scenario più terrificante, quello in cui s'inserisce la morte di 11.400 migranti annegati nel corso di tre anni e quella dei 600 innocenti inghiottiti dal mare nei primi 9 mesi del 2016 riguarda il contesto più ampio dell'intero Mediterraneo. Anche in questo scenario l'allargarsi della spirale di morte è tutt'altro che casuale. A scandirne la costante e progressiva espansione hanno contribuito le illusioni propagate dall'Europa di Bruxelles e della Germania della Cancelliera Angela Merkel di poter facilmente accogliere chiunque bussi alle porte del vecchio Continente.

Un'illusione che ha messo in movimento non tanto i migranti siriani, interessati a restare in quei campi di Turchia, Libano e Giordania da cui possono facilmente rientrare in caso di tregua o fine del conflitto, quanto le grandi masse africane e asiatiche convinte di poter trovare un futuro migliore in Europa.

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