Politica

Se ne va il despota gentile Un buon segno per l'Italia

Per nove anni ha fatto il bello e il cattivo tempo nel Paese

Se ne va il despota gentile Un buon segno per l'Italia

Oggi Giorgio Napolitano lascia il Quirinale dopo nove anni (7 più 2). Non è una notizia inedita, i giornali ne parlano da mesi. Diciamo che l'opinione pubblica è preparata e immaginiamo non sia sconvolta. Ma quando giunge il momento ufficiale degli addii, gli animi si predispongono a dire bene di chi trasloca. I buoni sentimenti prevalgono su quelli cattivi, si attenua lo spirito polemico e si pensa piuttosto a ciò che accadrà dopo i saluti e i ringraziamenti formali (non sempre sinceri) a colui che parte.

Noi abbiamo un timore: che il suo successore provveda a rivalutarlo. Presentemente non piangiamo l'uscita del capo dello Stato, ma non vorremmo essere costretti a rimpiangerlo. Sarebbe una sciagura. Cerchiamo, per favore, di eleggere un presidente schivo, poco amante delle telecamere e del protagonismo; un uomo che svolga la sua funzione senza dare nell'occhio e, soprattutto, che non irrompa nelle nostre case attraverso il teleschermo.

Attualmente ogni volta che accendiamo il televisore compare Napolitano nell'atto di lanciare moniti, intento a puntualizzare, a raccomandare. Poi compare Papa Francesco, anche lui impegnato - come è ovvio che sia - a predicare la virtù e a condannare il male (sarebbe curioso il contrario). Chiuso il servizio sul Pontefice, ne comincia uno su Matteo Renzi instancabile nel prometterci un futuro prossimo radioso. Dopo di che, siccome le disgrazie non arrivano mai sole, è la volta dei cuochi. Da quando gli italiani sono in bolletta e hanno ridotto i consumi, compensano le loro rinunce a tavola guardando i cibi cucinati da famosi chef.

La circostanza che almeno uno dei divi della tivù, Napolitano, si ritiri dal Colle, ci restituisce un pizzico di buonumore, speriamo durevole. L'ormai ex presidente ha una lunga storia personale, e il rileggerla costituisce un esercizio interessante. Quando era molto giovane, ebbe simpatia come tutti all'epoca, per il fascismo, che poi rinnegò attratto dall'esatto contrario; dal nero passò al rosso, e non lo abbandonò finché una pietra del Muro di Berlino in disfacimento non gli cascò su un piede, facendogli capire, con circa mezzo secolo di ritardo, che il comunismo provocava dolore.

Spesso i traumi favoriscono il cambiamento delle idee anche nelle teste meno portate a elaborarle alla luce dei fatti. Nel 1956 i carri armati sovietici invasero l'Ungheria (Paese satellite dell'Urss) allo scopo di ripristinare l'ordine a Budapest in balìa dei rivoltosi, gente moderata che non mirava alla rivoluzione, bensì a un regime più civile. Dal Pci se ne andarono parecchi iscritti, compresi alcuni leader di spicco, disgustati dalla violenza di Mosca. Napolitano, invece, non solo non fece una piega, ma si espresse in termini elogiativi nel commentare la repressione dei movimenti magiari. Egli spiegò che impedire la controrivoluzione era cosa buona e giusta.

Capita di sbagliare. Ma il garante sino a ieri della nostra Costituzione sbagliò anche nel 1969 in una situazione analoga. La Cecoslovacchia subì le maniere forti dei sovietici, i quali placarono con la forza le ansie di libertà del popolo, e Napolitano per non smentirsi si limitò a borbottare, senza prendere posizione contro il Cremlino.

Il lettore avrà in mente Aleksandr Solzenicyn, autore di Arcipelago Gulag, aspramente critico dell'Unione Sovietica e dei suoi metodi, assai simili a quelli del nazismo. Ebbene costui, scrittore lucido e lodatissimo in tutto il mondo, fu espulso dall'Urss e il compagno Giorgio, anziché rammaricarsene, bacchettò in un articolo (su Rinascita e sull' Unità ) il saggista e narratore, accusandolo di essere incompatibile con lo Stato sovietico e le sue leggi. Correva l'anno 1972. Trentaquattro anni più tardi, il censore di Solzenicyn è eletto dal nostro Parlamento, in nome degli smemorati cittadini italiani, presidente della Repubblica.

Siamo edotti. Non bisogna guardare indietro, ma in avanti, ma è pur vero che dimenticare la storia e chi l'ha fatta, cospargendo il proprio cammino di errori, non è il modo migliore per scegliere i leader cui affidare le istituzioni, compresa la più alta.

Quando Napolitano entrò inopinatamente al Quirinale (evento che nessuno si aspettava) pareva un uomo affaticato, logorato dalla lunga militanza in un partito legato a Mosca e finanziato a suon di rubli. Camminava lentamente e dava l'impressione di essere un po' curvo. Trascorsa una settimana, egli era già dritto come un fuso, completamente ringiovanito a dimostrazione che l'ingresso e la permanenza nel Palazzo giovano alla salute. Giovano al punto tale che l'ex comunista recuperò l'energia per trasformare di fatto il suo ruolo di garante in quello di comandante supremo. La tanto combattuta (dalla sinistra) Repubblica presidenziale, che prevede l'elezione diretta del capo dello Stato da parte del popolo, è stata surrettiziamente realizzata da lui, senza colpo ferire e senza suscitare scandalo. In pratica il Paese è stato per nove anni in due sole mani: cosicché qualcuno ha promosso Napolitano, scherzando ma non troppo, a monarca in piena regola. Da compagno a Re Giorgio: bel salto di qualità.

In effetti quest'uomo educato e non privo di finezze si è comportato secondo estro, facendo e disfacendo a proprio piacimento, infischiandosene delle contraddizioni. Era contrario alla moneta unica e adesso ne è un insuperabile difensore. Guai a toccargli l'Unione europea. Era comunista e, pur essendolo ancora, probabilmente, è riuscito nell'impresa di farsi stimare dall'intero arco costituzionale, tant'è che è stato votato, due anni orsono, dalla sinistra e dalla destra.

Per fortuna uno come lui non c'è più e ci auguriamo che non se ne possa inventare un altro uguale.

Sentiamo l'urgenza di voltare pagina, ma abbiamo il terrore che la nuova sia ancora più brutta della vecchia.

 

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