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"Servono le fatwe per battere la jihad"

Il magistrato e deputato: "Poche le condanne ferme e le denunce"

"Servono le fatwe per battere la jihad"

Dambruoso, lei ha indagato sulla mafia, i gruppi anarco-insurrezionalisti e poi sulla rete di Al Qaida. Ci sono analogie fra questa escalation di attacchi in Europa e le vecchie forme di terrorismo?

«Il terrorismo jihadista è diverso. Al Qaida era gerarchizzata, le investigazioni funzionavano come un tempo. Se beccavi l'intercettazione giusta potevi ricostruire il tessuto di una cellula. Con l'Isis siamo di fonte a soggetti spesso border line, islamizzati più per il brand.

Stefano Dambruoso, deputato di Scelta Civica, magistrato da 26 anni, si è occupato di tutte le forme di terrorismo. È stato esperto giuridico dell'Italia all'Onu e nel 2003 «Time» lo ha inserito fra gli «eroi moderni»: prima ancora che il mondo si risvegliasse nell'incubo delle Torri gemelle, aveva sventato un probabile attacco al Duomo di Strasburgo.

Dambruoso, si riparla di leggi speciali contro il terrorismo islamista.

«Quel che può funzionare, ma con la mafia non è riuscito fino in fondo, è la capillarizzazione della prevenzione. Serve una reazione capillare, che coinvolga tutti i cittadini, specie musulmani, che vivono in Europa».

Come la mobilitazione che ci fu nella base di partiti e sindacati contro le Br?

«Fu un percorso lento. Ora si può dire che ci fu una collaborazione di aree vicine ai terroristi, dopo la fase dei compagni che sbagliano. Ma tutto passò anche da strumenti legislativi sì. La maggior parte delle persone si dissociò prima ancora di collaborare».

Il pentitismo può essere applicato a questi guerriglieri jihadisti?

«Per l'Isis non è molto importante far emergere ciò che c'è dentro. Sono cellule autoreferenziali, che hanno rapporti col brand. Io ho avuto esperienze di pentitismo anche in chiave processuale. Ma con l'Isis, chi si deve pentire?».

E il concorso esterno in associazione terroristica jihadista?

«Siamo andati oltre. Grazie alla legge del 2015 è già possibile attribuire l'appartenenza al solo fatto di aver viaggiato nei territori controllati dall'Isis. È un passo avanti nell'anticipazione della soglia di punibilità. Alcuni si chiedono se lo spirito di appartenenza sia già configurato dalla mera presenza lì».

Secondo lei lo è?

«Siamo passati dall'arcaico giuramento mafioso della puntura del dito alla flessibilità di oggi, per dimostrare la convinta adesione all'organizzazione. Io sono più vicino a sentenze che hanno riconosciuto che c'è già questa adesione».

Questa mobilitazione di cui parla presenta rischi legati alle delazioni?

«Non mi spingo nella sociologia ma io ho presentato una proposta che mira ad attenuare i rischi di ghettizzazione promuovendo il dialogo interculturale e accorciando le distanze».

Ma queste comunità collaborano? Si vede solo qualche comunicato...

«Ad oggi non abbastanza».

Quanti denunciano attività o persone sospette?

«La presa di posizione spesso è poco chiara, anche se non vi è un'adesione tacita diffusa. Sono anche comunità poco gerarchizzate ma i leader ci sono. Mi aspetto vere e proprie fatwe, condanne. Che si dica: Chi commette questi fatti non è un vero musulmano, è fuori dal Corano. Le denunce sono poche, ma abbiamo visto i numeri proprio sul Giornale, in Italia non c'è un florilegio di casi».

Finora l'Italia è stata indenne? Abbiamo investigatori più bravi?

«Più bravi rispetto ad altri non potrei dirlo.

Ma sulla preparazione, fra Milano, Torino e Napoli, i casi che hanno preoccupato di più, posso dire che abbiamo professionisti di altissimo livello».

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