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Siria, pronti a fuggire 2 milioni di profughi

Le forze di Assad e Putin pensano all'offensiva finale. L'appello del Papa per i civili

Siria, pronti a fuggire 2 milioni di profughi

È una bomba da due milioni di rifugiati pronti a lasciare la Siria raggiungere la Turchia, passare in Grecia e risalire i Balcani. Ma è una bomba che nessuno sa come disinnescare. Il suo nome è Idlib. Fino a otto anni fa era una provincia agricola di quell'angolo di Siria chiuso a Nord Ovest dalla provincia turca di Antiochia. Con la guerra è diventata un nuovo Califfato controllato da 10mila combattenti di Jabhat al Nusra, la costola siriana di Al Qaida, e da 20mila militanti jihadisti e salafiti. Il perché della metamorfosi si nasconde negli accordi di resa accettati dai ribelli dopo le battaglie che hanno restituito alle forze di Bashar Assad, appoggiate dai russi, il controllo delle più importanti aree del Paese da Homs ad Aleppo, da Daraa a Ghouta. Al termine di quelle battaglie Damasco offriva ai ribelli due possibilità. La prima era firmare un accordo di riconciliazione e tornare alle proprie case dopo aver deposto le armi. La seconda, preferita dai militanti più radicali e dai jihadisti stranieri, era salire su dei pullman dell'Onu e venire trasferiti a Idlib.

Così oggi, cadute le altre roccaforti, Idlib non è solo l'ultimo baluardo jihadista, ma anche l'ultima prigione delle comunità cristiane e l'ultimo ostacolo alla vittoria finale di russi e governativi. I cristiani di Idlib, la cui fede risale ai tempi di San Paolo, vivono da anni reclusi nelle loro case e sono stati costretti a sottoscrivere la rinuncia a qualsiasi simbolo religioso dalle croci, al suono delle campane fino al divieto di celebrare la messa. Ma nonostante Assad prema per una veloce riconquista Vladimir Putin non ha fretta. La sua prudenza è dettata prima di tutto dalla minaccia della bomba migranti. Il rischio di un esodo di due milioni di persone, già discusso con la Merkel, è stato evocato ieri anche da Papa Francesco che ha invitato «tutti gli attori coinvolti ad avvalersi degli strumenti della diplomazia, del dialogo e dei negoziati per salvaguardare le vite dei civili». Un appello diretto innanzitutto al Cremlino impegnato nella ricerca di una soluzione per garantire la fuoriuscita in Turchia dei militanti di Al Qaida e un accordo di riconciliazione tra Damasco e le formazioni ribelli. Gli accordi di riconciliazione con i gruppi meno radicali sono affidati al sottosegretario agli Esteri russo Mikhail Bogdanov e a Nasra al-Hariri, un ex parlamentare siriano definito dal Cremlino un «leader dell'opposizione costruttiva».

Ma l'asse più complesso del negoziato passa per la Turchia. Trasformata in un partner negoziale dopo la crisi del 2015 che portò Ankara e Mosca a un passo dallo scontro armato, la Turchia è una dei garanti di quegli accordi di Astana, sponsorizzati dal Cremlino, in base ai quali Idlib è diventata una «zona di de-conflittualizzazione» affidata all'esercito turco. Rischiare uno scontro con i soldati di Ankara presenti a Idlib è oggi quanto di più lontano dalle intenzioni di un Putin che vede nello scontro tra Erdogan e Trump un'opportunità per dividere la Nato. Ma la Turchia, nonostante il suo ruolo di madrina delle formazioni ribelli più radicali, si rifiuta di chiedere ad Al Qaida di deporre le armi proponendole in cambio il trasferimento sul proprio territorio dei suoi militanti. La soluzione, vista come l'unica possibile per sventare un'imminente offensiva russo-siriana richiede, come contro partita, la neutralizzazione della presenza curda nei territori di confine tra Siria e Turchia.

Così, mentre la trattativa si prolunga e la macchina militare scalda i motori, la miccia della bomba migranti si fa inesorabilmente più corta.

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