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Le sparate su Mediaset bruciano 120 milioni

Il ministro: "Tv finite". Il gruppo perde il 3,6% in Borsa. E ci rimettono i 90mila azionisti

Le sparate su Mediaset bruciano 120 milioni

Tempi cupi per società di media, tivù e telecomunicazioni. Se poi ci si mette in mezzo il ministro che ha proprio la delega del settore, cioè quello dello Sviluppo Economico, nonché vice premier Luigi Di Maio, la frittata è fatta. Così ieri il titolo di Mediaset ha perso il 3,6% in Borsa, pari a circa 120 milioni di capitalizzazione volatilizzati in una seduta. E questo dopo che Di Maio, nel week end, per non farsi oscurare del tutto dalla Pontida di Matteo Salvini, l'aveva sparata grossa: «Le televisioni italiane hanno i gorni contati», ha sentenziato, inneggiando a una «Netflix italiana». Nel mirino non solo la Rai, che è pubblica. Ma anche Mediaset, società privata, controllata da Fininvest ma partecipata da circa 90mila soci: «Per Rai e Mediaset sarà fondamentale riuscire a rinnovarsi con nuove persone e nuove idee». Risultato: il crollo in Borsa di cui sopra.

Il titolo Mediaset era andato male già venerdì, insieme a tutti quelli del settore tivù in Europa, complice un report della banca d'affari Morgan Stanley che sottolineava le difficoltà delle media company generaliste di fronte all'avanzata di quelle web quali Netflix o Amazon. Difficoltà legate soprattutto alla spostamento degli investimenti pubblicitari sulle piattaforme «on demand». Ma ieri l'andamento di Mediaset in Piazza Affari è risultato peggiore del resto del settore: segno che le parole di Di Maio avevano avuto un peso.

Per inseguire un po' di visibilità, il leader dei Cinque Stelle ha fatto perdere soldi a tutti gli azionisti di Mediaset e, di fatto, ha indebolito una grande azienda italiana. Esattamente l'opposto di quanto dovrebbe fare un politico e ministro della Repubblica, a cui si immagina stiano a cuore la salute delle aziende italiane, dei loro dipendenti e azionisti.

Ed era inevitabile che andasse così: Di Maio, nel sollecitare il rinnovamento delle grandi aziende televisive, non ha che ripetuto ciò che tutti sanno. La minacciosa concorrenza delle piattaforme on demand è cosa arcinota. Ma proprio per questo le parole pronunciate da un ministro con la delega alle tlc, notoriamente ostile all'universo Berlusconi, non potevano non essere interpretate dal mercato come un segnale poco rassicurante per Mediaset.

Dalla casa del Biscione non sono arrivate reazioni particolari: l'allarme è per ora contenuto. Anche per l'evidente mancanza di conoscenza del settore dimostrata da Di Maio: nel mondo dei media si considera il servizio on demand come complementare rispetto alla televisione tradizionale, come sanno benissimo gli stessi Netflix e Amazon, che propongono un'offerta alternativa a quella generalista. Che, al contrario di quanto dice il ministro, non è destinata a scomparire. Ed è ancora più sorprendente che certe affermazioni arrivino proprio nei giorni in cui un evento tradizionale come i mondiali di calcio, ha fatto recuperare a Mediaset i 70 milioni di investimento già a metà della competizione. Domenica, poco dopo che Di Maio aveva finito di parlare, sette milioni di italiani si sono messi a guardare Croazia-Danimarca.

Inoltre Mediaset si sta già muovendo, e il mercato lo sa, nelle direzioni del rinnovamento che il ministro vorrebbe indicare: ha creato una piattaforma on demand in Italia (Infinity) già nel 2013, due anni prima dell'arrivo di Netflix. E sta trattando da tempo per implementare il modello di convergenza contenuti-tlc. Certo, lo fa con le sue risorse, non paragonabili a quelle degli Ott americani.

Ma proprio per questo il governo italiano dovrebbe almeno astenersi dall'ostacolarla.

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