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Milano non è più da bere ma non è certo da buttare

Dai grattacieli all'Expo tutte ele innovazioni italiane partano ancora da qui. Ecco perché sbaglia chi dice che ha perso la leadership del Paese

Milano non è più da bere ma non è certo da buttare

Quando le cose vanno bene, il merito è degli italiani; quando vanno male, si accusano i milanesi, sospettati di non essere più quelli di una volta, che lavoravano sodo, creavano ricchezza, si dedicavano con successo all'industria, erano all'avanguardia in vari settori. La loro città, sotto gli sguardi benevoli della Madonnina tüta d'oro e piscinina, era universalmente riconosciuta la capitale morale del nostro sgangherato Paese.

Oggi Milano è considerata sull'orlo della serie B non solo per il calcio in crisi, con Inter e Milan fuori dalle coppe europee e perfino dalla cosiddetta lotta per lo scudetto. Dicono che ha perso anche la leadership nazionale in campo economico e culturale, e che è destinata a un inarrestabile declino perfino sotto il profilo urbanistico e architettonico. È la realtà? Indubbiamente, il capoluogo lombardo soffre di un male comune a tutta l'Europa, non esclusa la Germania che si dà tante arie: girano meno soldi, le imprese languono, i capitali sono fermi e i capitalisti, non avendo fiducia nell'avvenire, difendono i loro quattrini e non rischiano, in attesa d'improbabili tempi migliori. Questo è innegabile. Ma Milano resta un gran Milan. Nel disastro generale, si salva ed è ancora la metropoli pilota, capace di esprimere qualche novità, animata dalla voglia di non soccombere, checché ne dicano i suoi numerosi detrattori.

Sul Foglio di mercoledì scorso, diretto dall'ottimo Claudio Cerasa, erede meritevole di Giuliano Ferrara, in prima pagina è comparso un articolo nel cui titolo si leggeva: «Un Expo non fa primavera. Perché Milano è sempre più un peso piuma». In estrema sintesi, il pezzo affermava che dal miracolo economico alla stagnazione il viaggio è stato breve. C'è del vero, ma non la verità. Che è assai più complessa e richiederebbe un esame maggiormente approfondito. Anni orsono si pensava che se Roma era corrotta, il Paese fosse infetto. Giusto. Col trascorrere dei lustri, nulla è cambiato. La capitale continua a fare schifo, la nazione seguita a essere infetta e Milano è stata contagiata dal virus. Non è un caso se nel 1992 fu qui che esplose Mani pulite, l'inchiesta discussa che scoperchiò il pentolone del malaffare politico e delle tangenti, un connubio indissolubile.

Sky sta mandando in onda una fiction che rievoca quell'indagine controversa da cui sorse la Seconda Repubblica. Non sarà un capolavoro, ma serve per ricordare se non altro che fu Milano a dare il via ai discutibili mutamenti della nostra storia. Insomma, ogni novità italiana, nel bene o nel male, parte sempre da qui. Ci sarà un perché. Qui partì l'industrializzazione dell'Italia, qui maturò il Risorgimento (300 dei famosi Mille garibaldini erano di Bergamo che, come tutta la Lombardia, è hinterland di Milano), qui si fece l'Unità nazionale, qui prese corpo il fascismo, qui si rafforzò il famoso terziario, qui si accese l'incendio del Sessantotto, qui si articolò la Lega e si udirono i primi vagiti di Forza Italia. Insomma, ogni fenomeno degno di nota e che ha inciso sui costumi di casa nostra è stato tenuto a battesimo nei dintorni del Duomo.

Forse l'Expo si rivelerà una vaccata, per usare un termine meneghino, comunque è stato progettato, finanziato, ottenuto da Letizia Moratti, ex sindaco di centrodestra. Se sarà un successo, tuttavia, verrà attribuito a Giuliano Pisapia; se, invece, si risolverà in un fiasco, daranno la responsabilità alla medesima signora Moratti. Un fatto è chiaro: l'Expo è un parto avvenuto non a Benevento o a Palermo, bensì a Milano. La quale Milano, mentre Roma regalava il Campidoglio e non soltanto quello agli apprendisti mafiosi delle peggio borgate, ha costruito un quartierone centrale che sembra uno spicchio di New York, con fior di grattacieli poi ceduti ai ricconi del Qatar per un vagone di miliardi. Soldi incassati dall'Italia, e la circostanza che siano di provenienza araba ci lascia indifferenti visto che anche nel terzo millennio «pecunia non olet».

Una fetta di Pirelli, milanese e non casertana, è stata rifilata da Marco Tronchetti Provera ai cinesi. Operazione intelligente, poiché i liquidi e il cervello della fabbrica restano qui, non vanno a Pechino. Milano non sarà più da bere, però non è ancora da buttare perché non smette mai di arrabattarsi allo scopo di non cedere il ruolo di locomotiva italiana. D'altronde, quale altra città le potrebbe fare concorrenza? Nessuna.

Qualche lettore penserà che la mia lode alla metropoli in questione sia influenzata da un sentimento campanilistico. Non è così. Sono nato e cresciuto sui bricchi orobici. Nella cerchia dei Navigli ci sono arrivato ultraventenne per lavorare, e confesso che se a Milano ho dato dieci, essa mi ha restituito cento.

Il made in Italy si è consolidato in Lombardia e nella sua escalation si è trascinato appresso il Veneto (laborioso e geniale) e l'Emilia (altrettanto intraprendente). Successivamente il trenino dello stile si è arricchito di vagoni multiregionali, questo occorre precisarlo. Attualmente il mobile (col suo salone) è un traino impressionante che ha la sua stazione principale in Brianza. Internet è germogliata da queste parti.

La Lombardia da un secolo resiste a ogni tipo di attacco: ai distruttivi movimenti giovanili, alle Brigate rosse, ai sindacati più acefali del mondo, ai pidocchi politici, al terrorismo islamico, a ogni genere di farabutti. Milano è la città più pulita della patria, la più elegante, la più evoluta, ha i trasporti pubblici più efficienti. Certamente, non è perfetta: gli imbrattatori di muri imperversano, impuniti a causa di leggi che proteggono gli sporcaccioni; i barboni e gli accattoni non mancano, le brutture neppure. Le periferie hanno i loro guai. Ma se le confrontiamo con quelle di altri luoghi, dobbiamo concludere che sono civili.

Smettiamola d'infangarci. Se l'Italia ricomincerà a correre, constateremo che Milano sarà il convoglio di testa, instancabile e forte come i suoi abitanti, soltanto il 5 per cento dei quali è di origine ambrosiana.

Gli altri, quasi tutti, sono immigrati della seconda e terza generazione che hanno trovato l'ambiente ideale per essere cittadini modello, milanesi ad honorem.

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