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Viaggio nei covi dei Cpr, dove tremila criminali si travestono da profughi

Il passato è alle spalle, ma il futuro non c'è. Il detenuto, che chiameremo Ibrahim, lascia il carcere dopo aver scontato una condanna di quelle pesanti, per omicidio

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Il passato è alle spalle, ma il futuro non c'è. Il detenuto, che chiameremo Ibrahim, lascia il carcere dopo aver scontato una condanna di quelle pesanti, per omicidio. È un clandestino, ma gli accordi con i paesi d'origine sono spesso e volentieri scarabocchi scritti sulla sabbia. O non esistono nemmeno, come con la Cina di XI. Ibrahim si guarda intorno: dove dirigersi? I più finiranno fatalmente per tornare in quella terra di nessuno che c'è intorno alla Stazione Centrale, a Roma Termini o in altri luoghi di marginalità e disagio, dove vivere acquattati nell'ombra. Ma una pattuglia lo blocca: i poliziotti gli consegnano un decreto di espulsione, firmato dal prefetto, e poi sapendo che il rimpatrio è un miraggio, un altro foglio, questa volta a firma del questore: Ibrahim verrà trattenuto in un Cpr, Centro di permanenza per il rimpatrio. Dove rimarrà al massimo 12 mesi (18 se l'hanno pescato sul territorio) e poi se non si troverà il modo di rispedirlo a casa, uscirà di nuovo in una sorta di gioco dell'oca.

I cpr sono visti con sospetto da una parte dell'opinione pubblica che li considera dei lager o, nell'ipotesi più benevola, delle carceri mascherate, perché in effetti il soggiorno è regolato dall'autorità amministrativa e non da una sentenza penale. Polemiche e pregiudizi sono lievitati nelle scorse settimane quando il governo ha deciso di scommettere anche su questo versante della lotta al traffico di esseri umani, potenziando queste strutture - che oggi sono dieci, ma presto saranno realizzate in tutte le regioni - e allungando il termine della permanenza che potrà arrivare appunto fino a un anno o un anno e mezzo, a seconda della provenienza del migrante. Un tempo lungo, ma paradossalmente troppo breve per sciogliere l'inestricabile matassa delle identità, degli alias, delle nazionalità di persone che giocano a nascondino con i propri dati anagrafici.

Così sfugge l'elemento più importante: i cpr sono l'unico argine per i tanti Ibrahim, i tanti irregolari, i tanti sbandati che hanno rubato, hanno rapinato, hanno commesso violenze sessuali, in qualche caso hanno ucciso, spesso hanno spacciato. Quando la parentesi dietro le sbarre si conclude, questi ragazzi tornano ad una vita randagia, spesso per mancanza di alternative sono di nuovo manovalanza della delinquenza. La prima linea della criminalità. I protagonisti di molti episodi di cronaca nera. Di sicuro non se ne vanno, ma bivaccano nelle nostre città.

Oggi, nei cpr ci sono circa 650 persone, con una rotazione annua che sfiora le tremila unità. Tutte persone che dovrebbero avere già prima di passare il portone del carcere un piede sull'aereo verso casa. E invece quasi sempre l'espulsione è solo virtuale e allora l'unico rimedio, sia pure a tempo, è quello di chiuderli in questi spazi. Per un periodo limitato, ma necessario per rendere effettivo il cartellino rosso e per toglierli dalla strada. La metà almeno degli ospiti dei Cpr viene bloccata dopo aver lasciato la cella; gli altri hanno pesanti fardelli sulle spalle, precedenti che impongono alle forze dell'ordine interventi drastici. Spesso una condanna di primo grado. Insomma, la scelta di mandare quei migranti, quelli e non altri, a Gradisca d'Isonzo o a Palazzo San Gervasio in Basilicata, o in via Corelli a Milano, non è frutto del capriccio o del caso, ma di monitoraggi e ricerche sul campo. Centinaia di persone, meno di tremila, selezionate e candidate a loro insaputa ai cpr, sulla base di fascicoli criminali zeppi di reati e pene. Una piccola percentuale di quel mezzo milione presunto di irregolari che si aggirano nelle strade della penisola. «Nei cpr - riassume Nicola Molteni, sottosegretario all'interno - concentriamo gli elementi socialmente più pericolosi, formalmente liberi, ma con un curriculum criminale importante. E nello stesso tempo convogliamo in questi centri persone che hanno una buona possibilità di essere rimpatriate, perché vengono da Paesi con cui abbiamo accordi che funzionano, a cominciare dalla Tunisia».

Scorrendo per esempio gli ingressi al cpr della Basilicata si scopre un catalogo impressionante di reati. Ad ogni arrivo corrisponde fatalmente un grappolo di illeciti. La schermata di un mese tipo, come maggio, non sfugge alla regola: il 2 maggio entra nel cpr un cittadino marocchino che è stato segnalato per furto; l'8 maggio tocca a un tunisino che ha violato le norme sull'immigrazione, poi il 9 arriva un ragazzo dell'Ecuador sotto osservazione perché nel suo curriculum c'è un'accusa di violenza sessuale di gruppo. E ancora il 16 maggio viene accompagnato un marocchino ritenuto pericoloso per l'attività di spaccio e le denunce per lesioni personali. È così per tutto il mese e per tutto l'anno, in Basilicata e negli altri cpr. I profili degli ospiti si assomigliano: non ce n'è uno immacolato. Solo pecore nere e un saccheggio del codice penale fino ai reati più gravi, compreso l'omicidio. «Possiamo affermare - conclude Molteni - che più del 50 per cento degli ospiti dei cpr viene rimpatriato e il 70 per cento di chi viene rimandato a casa passa per i cpr». Insomma, senza sarebbe pure peggio, i 3500 rimpatri del 2023 sarebbero ancora meno.

E ci sarebbe un battaglione di pregiudicati libero di andare su e giù per il Paese.

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