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Zingaretti stravince le primarie già scritte Il Pd torna ai dinosauri

Per il governatore 6 voti su 10. La vecchia guardia si ricompatta sull'antirenzismo

Zingaretti stravince le primarie già scritte Il Pd torna ai dinosauri

È il giorno della riscossa del Pd: prima la piazza di Milano, poi le lunghe code ai gazebo delle primarie. E in ventiquattr'ore il partito democratico si risveglia dal lungo coma post-elezioni 2018, e scopre di essere ancora vivo. Vivo e con un segretario, Nicola Zingaretti, legittimato da un voto larghissimo e molto partecipato.

Ma è un risveglio che già profuma di «Amarcord»: il ritorno dei «padri nobili», con Romano Prodi che annuncia che finalmente potrà riprendere la tessera; l'affollarsi di volti noti (da Roberto Benigni a Francesco Guccini a Nanni Moretti) ai gazebo; le rapide manovre di avvicinamento della vecchia Ditta dei Bersani e dei D'Alema; i dirigenti dell'ala vincente che celebrano la «voglia di sinistra» del Paese. L'esultanza dei media di riferimento, che proclamano il «ritorno della sinistra» sulla scena politica. Nessuno lo dice esplicitamente, ma molta della gioia e del sollievo che trapelano da quegli ambienti ha una ragione precisa: la fine dell'era Renzi, la liberazione da quello che, per l'establishment post-Ds e per il mondo del collateralismo intellettual-artistico-giornalistico è sempre stato un corpo estraneo. Persino la Rai, con la sua testata più allineata ai diktat governativi, ha dato un aiutino al candidato della de-renzizzazione: ieri il Tg2 ha mandato in onda, nella rubrica «Motori», un servizio con Zingaretti al volante. «Anche a tutela degli altri candidati, non mi è parso opportuno», denuncia il leghista Tiramani.

Si torna alle certezze del pre-renzismo, dunque: il nuovo segretario ha un cursus honorum di tutto rispetto da dirigente Pci-Pds-Ds, e ha vinto la partita interna accettando di buon grado il metodo collaudato della cooptazione da parte di quel che restava dell'apparato Dem, altro che gli strappi screanzati del self-made man fiorentino. Gran parte dei capicorrente erano con lui: da Franceschini a Orlando a Bettini a Cuperlo, con lui Prodi, Letta, Minniti. E il grande tessitore Paolo Gentiloni, l'ex premier che è succeduto a Renzi sullo scranno di Palazzo Chigi e che con Renzi, nei giorni del governo, ha rotto. Sarà lui, dicono i pronostici, il prossimo presidente del Pd. Sarà lui il volto più spendibile quando servirà un candidato premier: pacato, sperimentato, non ex-Pci, e forte ancora di una buona popolarità, che potrebbe facilmente risalire davanti ai fallimenti del governo giallo-verde. Quanto a Romano Prodi, chissà che non accarezzi il sogno di poter tornare in campo come candidato al Quirinale, obiettivo mancato due volte, ma non c'è due senza tre.

Il neo-segretario Zingaretti si muoverà con cautela e savoir-faire, senza rotture plateali con Renzi. Ma il suo Pd guarderà a modelli diversissimi da quelli del suo predecessore: già ha esternato il suo proposito di rifondare un Pd «alla Corbyn» e ha mostrato il suo entusiasmo per i volti nuovi della sinistra come la giovane Dem americana Ocasio Cortez. Ha voluto smentire ogni sospetto di apertura futura ai Cinque Stelle, ma la sua precaria maggioranza alla Regione Lazio, come non si stancano di rinfacciargli i renziani, si regge spesso sull'aiutino dei grillini locali. E comunque dovrà fare i conti con i gruppi parlamentari Dem che, soprattutto al Senato, costituiscono la ridotta del renzismo nel Pd. In attesa di capire cosa farà l'ex premier: deciderà di convivere con un Pd derenzizzato, facendo la fronda interna, o romperà? Zingaretti stesso non sembrava escludere una possibile separazione consensuale, prefigurando un possibile centrosinistra a due gambe. Ma le prime parole di Renzi dopo la sua elezione sono di miele: «Una vittoria bella e netta. Ora basta col fuoco amico: gli avversari politici non sono in casa ma al governo.

Al segretario un grande in bocca al lupo».

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