Cronaca locale

Quando Milano atterrò al Polo

Quando Milano atterrò al Polo

All'una e 25 del 24 maggio 1928 il gonfalone di Milano si adagiava, dopo un volo di 150 metri, sui ghiacci del Polo Nord. Era la prima volta che una città poneva - allineata ai protagonisti di quella grandiosa e tragica avventura ch'è stata la spedizione del dirigibile Italia - il suo simbolo al vertice del pianeta. Ed era stato proprio il comandante dell'impresa, il generale Umberto Nobile, a lanciare il vessillo di Ambrogio nel cuore del «mistero bianco».
Nobile aveva già conquistato il Polo due anni prima, nel 1926, con il norvegese Roald Amundsen e con il dirigibile Norge. Ma poi aveva voluto ritentare l'impresa in chiave tutta italiana. Con un ambizioso programma di ricerche scientifiche che prevedeva perfino lo sbarco e una lunga permanenza di tre uomini al centro dell'oceano artico. Progetto che contava, in gran parte, su una solida struttura ambrosiana. Innanzi tutto per i finanziamenti: già nel ’27 un gruppo di industriali garantiva i tre milioni e mezzo preventivati da Nobile per la spedizione. Unica condizione che all'impresa partecipassero anche due inviati, Cesco Tomaselli, del Corriere della Sera, e Ugo Lago, del Popolo d'Italia: con classico spirito meneghino il Comitato promotore sperava nello sfruttamento giornalistico e cinematografico dell'avventura. Avventura il cui «timbro» ambrosiano era altresì confermato dalla Città di Milano, la nave che forniva l'appoggio logistico, e dal fatto che milanesi erano i laboratori che avevano realizzato la maggior parte degli strumenti a disposizione dei tre scienziati della spedizione, Francesco Behounek, Finn Malmgren e Aldo Pontremoli, fondatore del Dipartimento di Fisica dell'Università Statale di Milano. Ma durante il viaggio di ritorno dal Polo, la mattina del 25 maggio, il giovane e brillante Pontremoli sparì nel nulla con altri cinque membri dell’Italia. Solo poche ore prima aveva annunziato a Nobile il valore al Polo della componente orizzontale del magnetismo terrestre. Cos'era accaduto? Che il dirigibile, dopo aver percorso migliaia di chilometri spesso in condizioni atmosferiche proibitive, a metà mattina di quel 25 maggio, si arrende alla furia del Grande Nord. In pochissimi minuti precipita sui ghiacci, che gli «strappano» la navicella di comando e dieci uomini (il meccanico Vincenzo Pomella muore sul colpo). Poi l'aeronave, alleggerita, rimbalza, riprende il volo, si dilegua tra la nebbia. Al suo interno, rapiti dalle nuvole, sono rimasti sei uomini. Con Pontremoli c'era anche Lago, che aveva tirato a sorte con il collega Tomaselli l'invidiato ruolo di «reporter boreale» durante il viaggio decisivo.
Dopo l'impatto, nove uomini si ritrovano sgomenti sull'immensa zattera di ghiaccio. Per fortuna con loro è caduta anche buona parte dei viveri e delle attrezzature. Soprattutto, c'è la tenda che l'industriale milanese Ettore Moretti aveva preparato per il preventivato sbarco al Polo: colorata di rosso, per essere più visibile nell'inferno bianco, si rivelerà un provvidenziale rifugio dei naufraghi per 48 giorni. Sul pack gli scampati trovano anche la radio di soccorso, però inizialmente i tentativi di collegarsi con la Città di Milano non hanno successo. Al punto che dopo 5 giorni tre uomini, Mariano, Zappi e Malmgren, lasciano il campo e iniziano una disperata marcia verso sud. Ma la sorte gioca ancora pesante: partito il terzetto, i disperati SoS della tenda rossa, lanciati dal radiotelegrafista Biagi, vengono sentiti da un radiamatore russo. Scatta una gigantesca «caccia ai naufraghi» (Nobile, salvato per primo, verrà accusato d'aver abbandonato i suoi uomini) che coinvolge sei nazioni e migliaia di uomini e che si concluderà il 12 luglio con l'intervento decisivo del rompighiaccio russo Krassin. Alla fine si contano 17 vittime: nove nel piccolo esercito di soccorritori, due norvegesi (tra cui lo stesso Amundsen), quattro francesi e tre italiani, e otto nel gruppo dell’Italia: Pomella, Malmgren e i sei dispersi.
Quale destino era toccato a Pontremoli e compagni? Erano bruciati vivi? Si erano spenti d'inedia? Si erano inabissati nell'oceano? L'anno dopo, generosamente, Milano organizzò una nuova spedizione, guidata dall'ingegner Gianni Albertini, per cercarli. Si esplorarono con slitte e cani oltre mille chilometri di banchisa, senza risultato. Solo la sorte si ripresentò, l' 8 agosto 1929. Durante una caccia all'orso Albertini, armato di carabina, scivolò su una lastra di ghiaccio. Partì un colpo che uccise l'alpino Giulio Guidoz.

La diciottesina vittima.

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