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Quando stavamo sempre in coda Amarcord di un Paese meno libero

Le odiavi. Ore fermo, un passo alla volta, la schiena di chi ti stava avanti studiata con interesse isterico, come le ali di una farfalla per un entomologo. Il caldo, perché quando sei in fila fa sempre caldo, anche d’inverno, che trasformava l’attesa in gocce di sudore. La signora all’ufficio postale, in banca o all’anagrafe lenta, snervante, come un film russo sulla rivoluzione. Lei non aveva mai fretta, tu e gli altri troppa. Le conversazioni rubate, che ti entravano in testa senza difesa, anche se non volevi, frammenti indesiderati della banalità del mondo: «Quanti anni ha tua figlia? Dodici? Sembra già una donna»; «Sì, ho appena cambiato moto. Questa è uno schianto»; «Mio figlio ha la varicella»; «Del Piero è bollito. Per me fanno bene a tenerlo in panchina». E accanto a te c’erano quelli che ti sbadigliavano in faccia, quelli che si asciugano con il fazzoletto bianco. C’erano le gambe e il seno e altro della ragazza otto posti più in là. C’era quello che ti passava accanto con aria distratta e puntava al sorpasso: «Ma siamo duecento, stai buono, stai lì, fai il furbo per una manciata di minuti?». C’erano quelli che starnutivano, tossivano, puzzavano. C’era l’Italia che si barcamenava con il buco nero della burocrazia. Un’Italia ferma, statica, rassegnata all’attesa.
La fila era una dimensione del quotidiano. Potevi anche incazzarti, ma l’accettavi come si fa con un lungo giorno di pioggia. Sapevi, come certa è la morte, che una bolletta da pagare o un certificato all’università ti costava tempo, fatica e mal di piedi. Poi qualcosa, lentamente, è cambiato. Le file sono diventate un’anomalia, una disfunzione, un gene corrotto che viene dal passato. La società ha trovato l’antidoto tecnologico per decimare i tempi morti. Numeretti e telepass, prenotazioni on line e call center, autocertificazioni e carte di credito hanno debellato code e file, quelle che gli italiani, troppo anarchici e troppo furbi, non sapevano fare. La gente in fila è un’immagine del Novecento, prima della caduta del Muro, prima di internet, prima dei precari senza sindacato. La fila è così il ricordo di un giorno a Budapest nel 1987, in un’Ungheria ancora comunista ma che già aveva importato il marchio e i negozi Benetton. Sotto le insegne dell’United Colors e oltre le vetrine un serpentone di ragazze di vent’anni aspettava il suo turno per accalappiare un sogno chiamato jeans. La fila è la foto in bianco e nero dell’Italia fascista, con le tessere annonarie, le scarpe robuste, i calzettoni di lana arrotolati ai polpacci delle donne, la guerra e ancora prima l’autarchia. La fila sono la Sandrelli e Manfredi di C’eravamo tanto amati, il bivacco notturno davanti alla scuola dove devono iscrivere il figlio. La fila è l’autostrada del Sole a Ferragosto con le Giuliette e le ’500 degli anni ’70 con le targhe quadrate a cinque cifre e il canotto sulla capote. Quelle di oggi sono un’altra storia. Sono i lavori in corso di una rete stradale in perenne allestimento.
E forse è davvero qui il segreto per capire lo stato di salute di un Paese. Le file sono un punteggio ad handicap come nel golf. Misurano il grado di libertà di un popolo, la sua civiltà, la sua distanza dal Novecento. Un popolo in coda è ancorato al passato, al secolo breve e tumultuoso delle masse in armi e delle ideologie.
Nel 1927 un filosofo e sociologo spagnolo scrisse una serie di articoli, pubblicati tre anni dopo con il titolo: La ribellione delle masse. Si chiamava Ortega y Gasset. Lanciava l’allarme contro la dittatura della folla che avrebbe segnato il resto del secolo. Diceva: «Io la chiamo sindrome dell’affollamento, del pieno. Le città sono piene di gente. Le case piene di inquilini. Gli alberghi pieni di ospiti. I treni pieni di viaggiatori. I caffè pieni di clienti. Le sale dei medici pieni di malati. I teatri pieni di spettatori. Le spiagge piene di bagnanti. Ciò che prima non era solitamente un problema ora incomincia ad esserlo: trovare posto». Le masse ci sono ancora, ma si sono disperse. Solo gli ultimi, i senza speranza, si ritrovano in fila.

Se guardate le ultime grandi code di questi anni troverete, se siete fortunati, un permesso di soggiorno.

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