Cronaca locale

Quel gioco della mente che contamina l’arte

È un modo di affrontare cose e persone «fingendo» un distacco filosofico

Elena Pontiggia

Che cosa si può vedere nella mostra «Ironica»? Be’, consiglierei di partire dalle Venezie-New York di Damioli, in cui si vede una capitale americana che sembra la Serenissima, una Manhattan in cui non si capisce più se si è nel Settecento o nel Duemilasei. Perché tra presente e passato, sembra dire l’artista, esiste un’inaspettata convergenza, e spesso il passato è più attuale del presente, mentre il presente può nascere stanco, soffrire di senescenza precoce, candidarsi a un pensionamento anticipato.
Poi si può proseguire con i Tappeti-natura di Gilardi: composizioni di alberi, frutti, vegetali in poliuretano espanso. Già negli anni Sessanta Gilardi aveva capito che di naturale, oggi, non c’è più nulla, tanto meno la natura. Date un’occhiata anche ai paesaggi di Salvo, o al suo Autoritratto in veste araba del 1973. Salvo è siciliano di origine, e in quegli anni il mondo dell’Islam era ancora un universo pacifico, un riferimento solo culturale. Vestire i panni di un sapiente arabo (o, come faceva Boetti, realizzare un tappeto con scritte nel loro alfabeto) significava, anche, ironizzare su un certo mondo occidentale, che si crede autosufficiente e non sa di dover tanto al Vicino Oriente. Altri tempi, comunque. Oggi è meglio stare alla larga dall’ironia su questi argomenti. Subito dopo ecco i paesaggi di Tino Stefanoni, che dipinge piccole vedute notturne, casettine illuminate dalla luna come presepi, alberi immobili in un cielo stellato, e tante altre immagini cariche di un divertito lirismo. Ma anche Lisa Ponti si muove nell’ambito di una poeticità sorridente, con i suoi disegni che sono un po’ segni e un po’ sogni, e invitano a prendere le cose con leggerezza, almeno fin dove ci si riesce. Non diversamente, Corrado Levi ha realizzato una serie di Bersagli coloratissimi: sono i bersagli della vita, quelli che si mancano sempre, che non si centrano mai, anche quando si prende accuratamente la mira. E, ancora, notate i Telegrammi (1972) di Vincenzo Agnetti: un’opera in cui l’artista indirizza a se stesso una serie di telegrammi, appunto, con frasi che mettono in crisi le certezze del linguaggio: perché le parole, spesso, non servono per dire la verità, ma per simulare, mentire, nascondersi. O, per finire, guardate le armi di Pascali: un cannone-giocattolo, che, dimessa ogni volontà di potenza, sembra poco più che un soprammobile. Insomma, la parola ironia (che deriva dal greco «eironia», finzione) è un modo di affrontare persone, cose e situazioni fingendo un distacco filosofico. L’ironia può assumere diverse sfumature, ma la mostra non intende indagarle tutte. Semmai, spaziando dagli anni Settanta ai giorni nostri, si sofferma su un’ironia leggera e sottile, che non si tramuta mai in caricatura, in smorfia, in irrisione, ma mantiene una dimensione di gioco mentale.
Ironica alla Galleria Gruppo Valtellinese, corso Magenta 59 fino al 31 gennaio (02-48.

008.015)

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