Politica

La rabbia dei ribelli

Youssuf ha 27 anni, è laureato in tecnica pubblicitaria, è nato qui. I suoi genitori vennero dalla Tunisia nel 1970 e ottennero la cittadinanza francese: il padre fa il tassista e sta per andare in pensione, sua madre prima ha fatto la donna delle pulizie, ora lavora a casa, monta trombette e oggettini per il Carnevale e le feste, «sfruttata come una schiava a cottimo». È un ragazzo sveglio con la faccia simpatica, la pelle scura dei nordafricani, capelli e pizzo ricci, baffi radi, un sorriso che finisce quasi sempre amaro.
L’ho incontrato, anzi mi ha incontrato lui, a mezzanotte passata, mentre gironzolavo per una delle banlieue dove più duri sono stati gli scontri, gli incendi e i vandalismi, gli assalti ai luoghi pubblici e i saccheggi, e dove si è manifestata con maggiore decisione la «tolleranza zero» del ministro dell’Interno Nicolas Sarkozy. «È pericoloso qui, per te», mi ha detto in perfetto francese, sorridendo. «Non mi sembra», ho risposto. Fino ad allora non avevo incontrato nessuno, a parte un ragazzino che - indicando la mia felpa azzurra con la scritta FRANCE - ha fatto il gesto di spararmi al cuore mormorando «France...». Dappertutto poliziotti più o meno armati che mi fermano ogni dieci minuti (insospettiti dalla mia abbronzatUVA?) e mi dicono sempre la stessa cosa: mi sembra che i più pericolosi al momento siano loro, comprensibilmente tesi, ma un po’ troppo eccitati nel vedere un nemico in chiunque non indossi la cravatta, figurarsi se - come me - parla un francese straniero. Devono «riconquistare», ha detto ancora Sarkozy, «dei territori che lo Stato troppo a lungo ha abbandonato a se stessi».
Il quartiere non è brutto, ma triste e sciatto, i grandi palazzi da abitazione affollati intorno a poco verde che una volta doveva essere ben curato. Ci sono parecchie automobili incendiate, nere e dolorose come denti guasti. Nessun bar è aperto e per andare a mangiare qualcosa e chiacchierare dobbiamo aspettare più di mezz’ora prima di trovare un taxi che accetti di venirci a prendere. Andiamo in una brasserie vicina al Moulin Rouge specializzata in bistecche di bufalo canadese. Ha scelto lui il posto, perché gli piace quella carne costosa, che dopo il primo boccone non riesco a inghiottire perché mi sembra di mangiare un pellerossa. Ha anche telefonato con il cellulare alla sua ragazza, Simone, che abita qui vicino («questo sì che è un quartiere») per dirle di venire a parlare con un «italiano curioso». Non mi sono qualificato come giornalista («alors tu es fou!» ha riso Youssuf). Per la verità i parigini ormai considerano Pigalle un quartieraccio, pieno com’è di negozi porno e di turisti affamati d’altro che non bistecche di bisonte.
Non ha partecipato alla rivolta (mentre lo dice fa un sorriso dubbio), ma la «capisce bene»: nonostante la laurea a pieni voti non riesce a trovare un lavoro adeguato e fa il cameriere in un albergo elegante del primo arrondissement, per questo tornava a casa tardi. Sua sorella minore va ancora all'università e avrà lo stesso destino, mentre il maggiore, che ha più di 30 anni e niente laurea, si è sistemato come impiegato alle poste dopo parecchi tentativi: «Sono francese a tutti gli effetti, ma quando nelle aziende vedono arrivare un curriculum come il mio si fermano al nome e lo buttano subito nel cestino. È questa la sintesi della rivolta, ce ne sono tanti nelle mie condizioni. Troppi».
«Credi che sia organizzata e non spontanea, come dice Sarkozy?».
«A metà. Ci sono dei gruppi organizzati dai quali è partito tutto, che hanno comandato e combattuto e lo faranno ancora, hanno trovato terreno facile anche in chi stava tranquillo».
«È vero, come dice la destra, che i più determinati e organizzati vengono da famiglie musulmane poligame?».
«Mais bien sûr, come potrebbe essere altrimenti, sono i più religiosi. Mi fa ridere la sinistra che lo nega. È proprio così, con un paternalismo benevolo che però non si occupa dei nostri veri bisogni, che la sinistra ha fatto danni e continua a farli. Si battono perché le nostre ragazze possano indossare il chador, et caetera, et caetera e non fanno niente per risolvere i nostri veri problemi: ci vogliono leggi che ci favoriscano, come le minoranze oppresse», sostiene, convinto. Non è né di destra né di sinistra, dice, e ha votato solo la prima volta, «per vedere com’era. La politica è sporca».
«Ma siete sei milioni, se vi favoriscono saranno i francesi a scendere in piazza, addio al loro lavoro, e addio al governo che facesse leggi simili, di destra o di sinistra che sia. I parigini bianchi che ho incontrato di giorno nel tuo quartiere dicono tutti così: tutti i governi da quarant’anni favoriscono gli immigrati. Noi da sempre paghiamo le tasse per le scuole e la salute dei loro bambini, che sono tanti, e adesso che hanno studiato e sono belli grandi, quei bambini ci odiano».
«Sono francese anch’io, te l’ho detto», e stavolta mi guarda proprio male, il bufalo fermo nella bocca disgustata. «E poi allora non dovevano farci entrare. Ma quando siamo arrivati a fare i lavori che non voleva nessuno, allora sì che andavamo bene. La Costituzione francese dice “Fraternité, liberté, égalité!”».
Veramente quella era la dichiarazione dei Diritti dell’uomo del 1789, ma la Costituzione in corso è ancora più impegnativa, fin dal primo articolo (tanto più bello del nostro), anche se meno romantica: «La Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale. Essa assicura l’uguaglianza dinanzi alla legge a tutti i cittadini, senza distinzione di origine, di razza o di religione». Glielo recito e stavolta ride di cuore mentre ripete «Tu es fou!»
Siamo d’accordo, trova anche lui umanamente accettabile che un piccolo o grande imprenditore preferisca assumere qualcuno che assomiglia a Rimbaud o a De Gaulle, piuttosto che a Muhammad Ali o al suo quasi omonimo cantante Youssou N’Dour. Ammette che molti immigrati dall’Africa o dall’Asia o delle ex colonie americane hanno meno predisposizione al lavoro dei «nordici». Totale disaccordo, invece, sulla motivazione più profonda: «Molti francesi, come moltissimi italiani - dico io - si fidano meno di chi ha una religione, delle credenze, delle abitudini diverse dalle nostre». Per lui, invece, «è solo razzismo». Della religione «se ne frega», anche se per la pace in famiglia deve far finta di rispettare certe regole, come il Ramadan.
«Capisci che un imprenditore, anche se non è prevenuto, diffida mica a torto di qualcuno che per un mese all’anno vuole lavorare a digiuno?».
«Mi mettano alla prova», stavolta risponde più fiacco, «e poi non è per il Ramadan che la polizia è così dura con noi, lo è da sempre, da prima che incendiassimo le auto», e parte in una lezione su come bruciarle, di preferenza le più grosse. Per la verità le auto vengono bruciate da sempre nelle banlieue. Prima che gli chieda se ha letto quella tecnica sui giornali arriva Simone, tutta coperta per il freddo. Me l’aspettavo scura, capelli neri e riccioloni, invece ha la pelle bianchissima, i capelli biondi lisci e lunghi, molto carina, quasi bella. Youssuf mi guarda fra il beffardo e l’orgoglioso mentre mi alzo per salutarla: «Allora, sono francese?», chiede mentre Simone gli dedica un’occhiataccia: ha capito cosa voleva dire. «Tu es un con», gli dice poi, «e cosa ci fai ancora in giro a quest’ora?». Si siede, stava quasi per andare a letto e ordina solo un bicchiere e un piatto di patate fritte. Ha 22 anni, è nata a Lilla, più a nord di Parigi, suo padre è un esperto di computer e si sono trasferiti qui da quando aveva 13 anni. Studia biologia, è un poco indietro, ma conta di farcela in due anni. Ha conosciuto Youssuf quasi un anno fa e si sono piaciuti subito. Nessun problema per lei, anche diversi amici e amiche stanno con dei musulmani immigrati, ma gli dà ragione su tutto quanto abbiamo detto: neppure i suoi genitori hanno fatto danze di ringraziamento quando hanno visto comparire a casa il suo nuovo ragazzo.
Si sposeranno? Lui sorride, lei fa una smorfia, non ci pensa per niente, e comunque se così fosse sarebbe in chiesa, «di certo non con quelle deficienti di leggi islamiche». Le religioni le vanno bene tutte, ma non se hanno quelle «pretese assurde. Riguardo alle donne poi...». Youssuf è molto tenero con lei, la abbraccia e la bacia spesso su una guancia, mentre lei parla e intinge una patatina nel sugo di pomodoro.
Alle 3 del mattino siamo in una sintonia quasi amicale, quasi euforica, anche per il Beaujolais di cui Youssuf ha chiesto una seconda bottiglia (Simone gli dà amorevole aiuto a svuotarla), quasi volesse dimostrarmi che davvero non è così musulmano: «Lo sei tu», aveva riso quando ho ordinato la prima Perrier, e ride ancora alla seconda. Ho confessato di essere un giornalista («lo sapevo...») e ho chiesto se secondo loro gli scontri riprenderanno. «Riprenderanno per forza, fra due settimane, fra due mesi, o fra due anni», siamo tutti d’accordo perché ormai la miccia è partita, gli estremisti islamici sono sempre più organizzati e determinati e anche il governo francese e i «francesi» (ormai lo diciamo fra virgolette, per capirci) non ne possono più dei noirs.
«Il problema si estenderà all’Europa?», chiedo. Non ne sanno d’Europa, ma «dove ci sono tanti musulmani di certo», è Simone a parlare, «perché ovunque siano i musulmani fanatici sono sempre uguali, e invece di diventarlo sempre meno lo diventano sempre più». Gli prende una mano e gliela bacia, poi scoppia a ridere guardandolo negli occhi: «Ma le parigine hanno la testa più dura di loro...».
«Youssuf, mi fai conoscere qualche estremista, domani? Vorrei parlare con qualcuno dei più fanatici».
«Tu es fou!», ride ancora, «e poi sei troppo vecchio e troppo bianco, faresti una brutta fine». Non c’è modo di convincerlo, forse la brutta fine la farebbe lui.
«Allora posso cenare con Simone domani, mentre lavori? Mi faccio raccontare i problemi che avete».
«Non sei così vecchio Jordanò, e non sei neanche pazzo. Sei furbò» dice furbo in italiano, anche se con l’accento.

Non sa che ad appiopparci quell’aggettivo furono gli invasori francesi, nel Quattrocento. Viene dal francese fourbir, e vuol dire «sgraffignare». È davvero difficile che i popoli si amino, quando tentano di entrare l’uno nell’altro.

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