Cronaca locale

"Rifarei l’attentato, la mia religione lo vuole"

Davanti alla corte non rinnega nulla il kamikaze libico che quindici mesi fa voleva far saltare in aria la caserma Perrucchetti: "L’Italia e i miscredenti stanno combattendo contro di noi, noi dobbiamo combattere loro". E il giudice: "Non faccia proclami". Guarda l'ingresso in tribunale

"Rifarei l’attentato, la mia religione lo vuole"

Il bombarolo, o quel che resta di lui, entra in aula ammanettato a una sedia a rotelle. Si potrebbe obiettare che essendo cieco e con una mano sola, è difficile che fugga. Ma la sicurezza ha le sue regole. Soprattutto se ti chiami Mohamed Game e sei l’unico che in Italia il martire della jihad lo ha fatto davvero. Se sei l’unico che la guerra santa contro i miscredenti l’ha trasferita dalle chiacchiere, dai sermoni, dai filmati via Internet, ad una bomba legata al tuo corpo e portata, una mattina di autunno milanese, all’attacco dell’Occidente. Caserma Perrucchetti, 12 ottobre 2009. L’ordigno artigianale fatto di diserbante e di nitrati saltò in aria insieme a Game lasciando intatta la caserma, ferendo un soldato, e riducendo lui in condizioni pietose.
Sono le 10,15 di ieri mattina quando, per la prima volta da quel giorno, Game appare in pubblico. É l’aula dove si processa Mohamed Israfel, un giovane libico accusato di averlo aiutato a preparare l’attacco. Quando appare in aula, spinto da un infermiere, la prima impressione è, inevitabilmente, di compassione. Grigio in volto, gli occhi spenti, il moncherino che spunta dalla manica destra del maglione. Respira a fatica, quasi succhiando l’aria. Ma poi Game parla. E le sue parole sono quelle di un uomo che non si è piegato, che rivendica quello che ha fatto: «L’attentato è fallito. Ma farlo era il mio dovere religioso».
Davanti al pm Maurizio Romanelli e alla Corte d’assise, Game rivendica tutta per sè la responsabilità dell’attacco. «Ho fatto io, da solo. A Israfel ho detto che avrei voluto fare un attentato, non che lo stavo facendo: c’è diversità tra le cose. D’altronde se uno vuole fare la jihad, deve trovare qualcuno che gli dia una mano. Allora gli ho fatto una proposta, così, in generale: ma lui disse che aveva una famiglia e che non gli interessava fare questa jihad e allora io ho staccato la spina. Non gliene ho più parlato. Se uno decide di fare davvero una cosa, non deve parlare. Quelli che parlano troppo non fanno niente. Quelli che parlano poco, invece, sono quelli che fanno».
E lui ha fatto. Gli chiede il giudice Grisolia: voleva morire suicida? «Non suicida. Martire. Non è la stessa cosa». Insiste il giudice: era pronto a morire, quando andò alla caserma, o sperava di lanciare la bomba e andarsene? E qui Game si spazientisce, poi, incredibilmente, quasi sorride: «Se vogliamo usare la logica... Io ormai sono stato condannato a quattordici anni. E le dico: nessuno entra in una caserma con una bomba pensando di farla saltare e poi uscire».
Gli occhi sono persi nel buio, ma Game è lucido, presente. Parla in un buon italiano. Solo una volta si infervora, e allora dall’italiano passa all’arabo, mormora frasi piene di rabbia che nessuno capisce. Poi si calma. Racconta che anche un bombarolo, come qualunque uomo sposato, a volte ha il problema di spiegare alla moglie perché passa una notte fuori casa: lei probabilmente pensava a un’amante, lui invece era nel covo a trafficare con inneschi e detonatori.
«Signor Game, lei non è qui per fare proclami», gli aveva raccomandato il giudice all’inizio. Ma questa deposizione non avrebbe molto senso se a Game non venisse consentito di spiegare le sue ragioni. «Avete trovato un messaggio, no? Avevo lasciato un messaggio bello chiaro. Diceva che o voi uscite dall’Afghanistan o noi porteremo la guerra sul vostro territorio. Ecco, le cose stanno così». E ancora, più dettagliatamente: «Siccome l’Italia sta combattendo in Afghanistan, siccome tutti i miscredenti combattono contro di noi, allora noi dobbiamo combattere contro di loro». Quindi volevate fare degli attentati ai componenti del governo Berlusconi? «Esattamente».
All’inizio, a quanto pare, non è che lui ci tenesse particolarmente a fare il martire. Avrebbe preferito mandare qualcun altro, magari senza avvisarlo. «Israfel era il mio maestro spirituale, perché lui conosce il Corano meglio di me. Allora gli chiesi qual era il giudizio della religione islamica sul fatto di mandare qualcuno con dell’esplosivo e farlo esplodere. Lui però mi disse che non era corretto». Così Game decise di andare lui stesso. E si mise a lavorare alla bomba, seguendo le istruzioni copiate da Internet, di notte, quando la moglie e i figli dormivano e lui poteva navigare senza destare allarmi sui siti del terrorismo via web.
Da quel momento la decisione è presa. E tutto il resto, nel suo racconto, scivola verso la conclusione maldestra e terribile. A partire dal pellegrinaggio nei negozi alla ricerca delle materie prime, scroccando passaggi a questo o a quel connazionale «perché io sono fatto così, pur di avere uno che mi porta in automobile aspetto anche due settimane. E poi, signor giudice, non potevo certo prendere l’autobus con l’acido nitrico, perché se si versa brucia i piedi...».
Con gli amici che lo accompagnavano e con i negozianti, racconta, doveva inventare delle scuse: «l'acido nitrico si usa anche per tastare se l’oro è autentico», «il nitrato di ammonio si usa anche in agricoltura». Di nitrato gliene sarebbe bastato poco, ma visto che il prezzo era buono decise di fare scorta, se ne portò a casa centoventi chili, e una buona parte non si sa dove sia finito. «Ho fatto tutto da solo», ripete: e d’altronde sono i milioni di lone wolves, di lupi solitari come lui, che la propaganda del terrore cerca di sedurre con i proclami via Internet, massa enorme non controllabile, senza nulla da perdere.

Poi lo riammanettano alla sedia a rotelle e lo portano via, verso il carcere, avvolto nelle sue tenebre e nelle certezze che gli consentono di continuare a vivere.

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