Natale (e giorni a seguire) per molti è sinonimo di mangiate che poco hanno a che vedere con la spiritualità. Al di là di ogni giudizio - ognuno si gestisca i propri succhi gastrici come meglio crede - è interessante vedere come il cibo possa rappresentare - indistintamente da religione o etnia - un momento di aggregazione e condivisione (si fa per dire).
Ecco cosa è successo questanno nel mondo: i ciprioti hanno litigato furiosamente con i turchi per colpa di un dolce: i pasticcieri dei due Paesi hanno contestato quanto scritto da una rivista dellUe, secondo cui i baklava sarebbero un «piatto nazionale cipriota». In realtà, pare abbia detto tale signor Gullu, maestro pasticciere di Istanbul, i baklava non sono né dei greci né dei turchi, bensì ottomani. In settembre invece il leader libico Gheddafi ha annunciato che avrebbe chiesto «compensazioni» ai due colossi Usa, Coca Cola e Pepsi perché in realtà sono africane: «Le sostanze che utilizzano - ha tuonato - provengono dal nostro continente. Devono risarcirci».
Anche nella nostra amatissima Ue ci si scanna sulle ricette (oltre che sulla Costituzione). Se quattro cuochi sincontrano, un francese, un austriaco, un ceco e un ungherese, cè il rischio che si prendano a botte sullorigine della crêpe: laustriaco si ostina a chiamarla palatschinken, il ceco palatcinky e lungherese palacsinta. E poi ci si sono messi di mezzo pure gli italiani per i quali trattasi di unantica ricetta romana denominata «placenta», una sorta di focaccia rotonda da mangiare al posto del pane.
Mentre gli austriaci continuano a chiamare Wienerschnitzel la cotoletta che i milanesi chiamano Milanese; i russi insistono a chiamare insalata italiana quella che noi chiamiamo russa, gli spaghetti ciclicamente diventano di origine cinese, poi araba e così via, ricordiamoci che stiamo trascorrendo giorni di pace e armonia (sic). Quindi vogliamoci bene e facciamo i bravi almeno a tavola. In attesa di un mondo etno-euro-globale più sereno.