Cronaca locale

Se Milano smette di amare il Risorgimento

Nel 1961, nel compirsi del secolo dell'unità nazionale, il trattato di pace del 1947 aveva solo quattordici anni. C'era costato Istria e Fiume, Briga e Tenda, Libia e Somalia, Etiopia, Eritrea e Dodecaneso, ma non aveva minato l'idea di patria. Ci sono poi riusciti - ora, nel secolo e mezzo di unità nazionale - l'eterogenea coalizione di benessere sfumato e declino demografico, progressismo e leghismo, Ue ed euro.
La conferma è venuta dal convegno dell'Aespi a palazzo Marino, «Una d'arme, di lingua, d'altare». Non c'è certezza in quell'«una», ma rimpianto e speranza. La serie dei sottotitoli confermava la prima impressione: «Stato e società italiana: continuità e cambiamento»; «Risorgimento, unità e problematiche post-unitarie»; «A pranzo con Garibaldi: unitari e anti-unitari alla stessa tavola».
Alla stessa tavola per discutere, quando un giorno potrebbe scannarsi in una guerra civile, si sono seduti il vice-presidente della Regione, Stefano Di Martino, che ha presieduto i lavori, Alfredo Mantica, Giorgio Galli, Giuseppe Parlato e Marcello Veneziani; poi Stefano Zecchi, Nico Perrone e Francesco Menna. Ognuno ha esaminato ciò che resta d'unità nazionale, per rafforzarla o demolirla, secondo competenza (politica, amministrazione, storia, filosofia, cinema, calcio), oltre che secondo orientamento.
La questione nazionale è diagonale agli schieramenti politici. Chi ha posto in discussione, con la storia patria, l'unità, nell'epoca repubblicana ha votato generalmente a sinistra o all'estrema sinistra. Ma nel convegno s'è visto che o quelle persone non votano più a sinistra, come Zecchi, o lo fanno ancora, come Galli e Perrone, e sono fermamente unitaristi, consapevoli che non si fa una frittata senza rompere le uova. E che quindi si possono rimpiangere i pulcini borbonici o papalini che non hanno potuto nascere. Ma che, con questo pretesto, non si può procedere all'eutanasia dell'Italia.
Interessante aver incluso elementi di cultura popolare in un convegno che poteva chiudersi nell'ideologia. Il popolo è più della somma dei cittadini. Quello italiano è composito più di altri. Il popolo milanese è diverso da quello torinese e da quello genovese, anche se è in questo triangolo che l'unità nazionale è maturato. Ora il popolo milanese vota in modo diverso da quello torinese e da quello genovese. Quanto a quello bergamasco, che aveva dato ai Mille di Garibaldi la componente più numerosa, è sodale con quello milanese nell'auspicare più secessione che unità. Strano: nel 1944 i bergamaschi erano già largamente lieti che la Repubblica Sociale avesse perduto il Sud, ma, equanimi, salivano nella Città alta, la notte, a osservare gli incendi dei bombardamenti su Milano...
Di simili episodi non dicono i saggi di Renzo De Felice, ma le memorie - di Franco Cangini, condirettore de Il Giornale in epoca Montanelli, e i film. Milano ha smesso di amare il Risorgimento - se l'ha mai amato, salvo nelle classi alte - quando Le cinque giornate di Dario Argento l'ha lasciato indifferente, anziché ferirla; e quando Allonsanfan dei fratelli Taviani ha potuto ridurre, sempre nell'indifferenza, il patriottismo nell'età della Restaurazione al movimentismo nell'età della Contestazione.
Sono passati quasi quarant'anni da quei film. Oggi l'afflato verso l'unità nazionale, attraverso il cinema, viene solo dal Sud, come nel caso dell'interminabile Noi credevamo di Mario Martone, che retrodata al Risorgimento la logica del terrorismo che strutturava La meglio gioventù del milanese Marco Tullio Giordana. Mai ho amato le lapidi dei patrioti risorgimentali, poi di fascisti e antifascisti, come da quando le accomuna l'oblio.

A dissolverlo, almeno per un giorno, servono anche i convegni di palazzo Marino.

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