Politica

Se procure e giornalisti calpestano la giustizia

Dunque non si rispettano le sentenze. Una vera e propria associazione di magistrati, di medesimi orientamento e ideologia, con il concorso esterno di giornalisti che ne propagandano le idee, minaccia e sovverte le leggi e l’ordine dello Stato. A questo schema sovversivo mette il cappello Gian Carlo Caselli titolare di numerosi fallimenti, dopo ingiusti arresti, in processi per mafia. Caselli addirittura chiede un’azione disciplinare e una punizione da parte del Csm per il suo collega di Cassazione Francesco Iacoviello che ha riconosciuto violati i diritti di difesa di Dell’Utri e l’assenza di atti e fatti che si configurassero come reati.

Ci stiamo avviando a un paradosso della giustizia. Da un lato magistrati di vasta esperienza dichiarano che «al concorso esterno non crede più nessuno»; dall’altro una serie di giornalisti infoiati gridano, come tifosi, a un gruppo di esecutori: «Ammazza! Ammazza!». Ovvero, dalli all’untore! Era infatti appena uscita la sentenza che riconosceva nei magistrati di Palermo un grave pregiudizio per non avere «rispettato neanche il principio del ragionevole dubbio», che subito il pm Domenico Gozzo (di cui ho personalmente verificato la insufficienza di inquirente) dichiara, incredibilmente: «Le indagini e due processi hanno fugato ogni dubbio». Di «prove autonome, documentali e testimoniali» parla anche Marco Travaglio affermando, contro la Cassazione, che «il processo dell’Utri è il più solido tra tutti quelli celebrati per concorso esterno per associazione mafiosa».

Nell’atteggiamento della Procura di Palermo, e di alcuni giornalisti, si ha la sensazione che il processo debba essere fatto non per ricercare la verità, ma per attaccare, diffamare e infine condannare un nemico. Sono rimasto molto colpito dall’articolo di Attilio Bolzoni, colpevolista per tifo, ma incapace di fornire, sul piano giornalistico, indizi o elementi di prova alle sue considerazioni.

Mi viene di rispondergli: ma perché uno deve essere colpevole per forza? Non si gioca con la vita e la libertà degli altri. La mafia non può essere riconosciuta in uno stato d’animo o in un contagio per cattive frequentazioni. Dopo aver definito il calvario di Dell’Utri, una delle più incredibili vicende del nostro paese, Bolzoni insiste ironicamente: «Dell’Utri aveva relazioni con uomini vicini alla Cupola, ma che importa, mica c’è la prova del suo “contributo” all’associazione criminale denominata Cosa Nostra...».

Ma un’ulteriore aggravante, per Bolzoni, sono le origini siciliane di Dell’Utri: un peccato, evidentemente originale. Si è colpevoli del proprio destino, non dei propri atti. La tutela e il rispetto dei diritti, richiamati dalla Cassazione, sono «sofisticate acrobazie giuridiche». Ci si chiede: ma la mafia esiste ed esisterà sempre, in quanto realtà ontologica e psicologica, o esiste in quanto agisce, per ciò che fa? Il reato prevede il fatto, non il sospetto o l’atmosfera. Forse Bolzoni ha dimenticato il precetto di Gian Battista Vico: «Verum ipsum factum». Niente da fare.

Per lui, come per alcuni suoi colleghi che scrivono sull’«Infetto», la sentenza della Cassazione e i principi giuridici sono carta straccia.

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