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Dall'Italia alla Luna e oltre con i sogni dell'astronautica

I primi razzi (per scopi bellici) nel Trecento li usò Venezia contro Genova. Poi si puntò più in alto...

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Se pensiamo alla parola «razzo» ci viene in mente, per esempio, il Saturno V che portò l'uomo sulla Luna, ma chi iniziò a usarla per primo? Almeno in questo, incredibile, siamo stati i primi. Nel Trecento fu infatti Venezia a usare dei razzi contro la rivale Genova, attaccando la torre di Chioggia, e come ricostruisce lo storico settecentesco Ludovico Antonio Muratori: «Pure una rocchetta fu tirata nel tetto della torre de si fatto modo, que il tetto s'accese».

Razzo, o «rocchetta», da cui derivano il francese roquette, il tedesco rakete, e rocket in inglese. Senza gli italiani Elton John non avrebbe potuto scrivere Rocket man. Insomma, non è che siamo sempre stati gli ultimi quanto a tecnologie che in futuro avrebbero portato l'uomo nello spazio, una lunga storia adesso raccontata nel libro di Giovanni Caprara Storia italiana dello spazio, edito da Bompiani.

Tra le curiosità: le origini dell'uso della polvere da sparo per lanciare razzi sono confuse, ma in Europa tra i padri ci sarebbe il frate francescano Ruggero Bacone, che ne descrive i costituenti nell'opera De secretis operibus artis et naturae, alla fine del Duecento. In sintesi: San Francesco parlava agli uccelli e i francescani pensavano a sparare, fico.

Dopodiché è una lunga storia di fuochi d'artificio, ma nell'Ottocento si riprese a usare ampiamente i razzi come arma, per esempio l'esercito borbonico aveva perfino una compagnia con il nome di «razzieri». Anche quando Garibaldi entrò a Palermo la città fu distrutta con l'uso dei razzi (ma non riuscirono a prenderla lo stesso).

Ma per tornare allo spazio bisogna aspettare Francesco Grisogono, che nel 1883 pubblicò a proprie spese il libro Sulla possibilità di viaggiare gli spazi celesti. Studio basato sopra la scoperta dell'oscillante, un mezzo fisico per volare nel vacuo. Erano gli anni in cui Giovanni Schiaparelli aveva osservato dei canali su Marte, e si credeva fossero artificiali e opera di extraterrestri, e su questa svista siamo andati avanti per anni a parlare di marziani alimentando romanzi e fantasie (perfino quando la Nasa ci ha mandato dei robot, e abbiamo visto che su Marte non c'è nessuno, le illusioni sono dure a morire). Il sogno di Grisogono era chiaro: «l'uomo potrà squarciare finalmente le catene della gravità che per tanti e tanti secoli lo tenne prigioniero su questo angusto globo».

I precursori italiani che cominciarono a ipotizzare concretamente viaggi sulla Luna sono tanti, come Giulio Costanzi, che nel 1914 pubblicava lo studio Per uscire dal pianeta, all'inizio della Prima Guerra mondiale, non è che gli abbiano dato molta attenzione. O l'ingegner Luigi Gusalli, che pubblicò il libro Si può tentare un viaggio dalla Terra alla Luna? anche qui con pessima tempistica, era il 1923, a un anno dalla Marcia su Roma, l'Italia aveva altro a cui pensare. Tranne Filippo Tommaso Marinetti, che ricevette una copia e scrisse a Gusalli: «Rispondo a priori: Sì! Sì!», ci mancherebbe che il fondatore del futurismo avesse risposto no.

Il resto del libro di Caprara è una avventura di andirivieni di ingegneri e astrofisici dall'Italia agli Stati Uniti: d'altra parte gli americani saranno sempre all'avanguardia nella conquista dello spazio. La nostra è una storia un po' sfigata, come sempre, ma non per colpa dei protagonisti, per colpa dell'Italia, della sua burocrazia, dei suoi politici. Ho sempre pensato che se Bill Gates o Steve Jobs fossero nati in Italia sarebbero rimasti nei garage da cui sono partiti, al massimo qui avrebbero potuto aprire un'officina.

Non si può però, tra i tanti, non ricordare il Nobel Carlo Rubbia e il suo Progetto 242 di un propulsore a neutroni «a frammenti di fissione» da usare per arrivare a Marte riducendo i tempi di viaggio da otto mesi a quarantacinque giorni (la lunghezza del viaggio è uno dei più grandi problemi da superare per via delle radiazioni, perché l'Universo è cancerogeno). Progetto a cui collaborò Nanni Bignami, tra i nostri più grandi astrofisici, purtroppo recentemente scomparso. Gli è stato dedicato un asteroide, il 6852 Nannibignami, e il prossimo 10 luglio gli sarà dedicato l'Auditorium della sede del quartier generale dello Square Kilometer Array a Jodrell Bank, inaugurato dalla moglie, l'astrofisica Patrizia Caraveo, e dalla figlia, la chimica Giulia Bignami.

Bignami, presidente dell'Agenzia Spaziale Italiana e poi dell'Istituto Nazionale di Astrofisica, era un forte sostenitore di uno sbarco umano su Marte, e era convinto di una cosa: «Il bambino che un giorno camminerà su Marte è già nato». Dotato di grande affabulazione, ospite fisso da Piero Angela, fosse ancora vivo oggi di sicuro riuscirebbe a convincere Donald Trump a darsi una mossa spaziale.

In fondo piazzare una bandiera americana anche su Marte è più importante per la Storia che costruire un muro al confine col Messico.

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