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In «Da Euclide ai neuroni» il neuroscienziato spiega i meccanismi grazie ai quali abitiamo lo spazio

In «Da Euclide ai neuroni» il neuroscienziato spiega i meccanismi grazie ai quali abitiamo lo spazio

Chi siamo? Cogito ergo sum, ok, ma poi? Mentre la psicanalisi è sempre più un pezzo da museo e la filosofia agonizza nella metafisica, le neuroscienze vanno avanti, e si integrano sempre di più con la teoria dell'evoluzione. Che, nonostante sia un fatto accertato, continua a essere osteggiata dal senso comune. Cosa ci dà più fastidio? Non credo solo il discendere dalle scimmie, anche perché non veniamo dalle scimmie: noi e gli altri animali discendiamo tutti da un unico antenato comune monocellulare. E tuttavia il nostro cervello non si dà pace: chi siamo? Dove andiamo?

Ho raggiunto al telefono uno dei nostri più importanti neuroscienziati di fama mondiale, Giorgio Vallortigara, di cui è appena uscito il libro Da Euclide ai neuroni (Castelvecchi), per porgli qualche domanda al riguardo.

Alla fine del libro dici che Kant, oggi, sarebbe un neuroscienziato. Perché troverebbe prove empiriche a molte sue idee?

«Gli scienziati cercano risposte agli antichi e un poco incancreniti problemi della tradizione filosofica. Ad esempio, al problema dell'origine della conoscenza, che preoccupava Kant. Lo fanno però con i metodi propri delle scienze naturali: cercando riscontri obiettivi e mettendo alla prova empiricamente le loro ipotesi. Kant, se fosse qui, farebbe buon uso, io credo, di tutti gli strumenti della scienza moderna per sviluppare la sua teoria della conoscenza».

Mi fai un esempio?

«Consideriamo un caso specifico: la conoscenza dello spazio. Per orientarci nell'ambiente abbiamo bisogno di un senso della direzione. Da dove viene? È qualcosa che impariamo? Si tratta di una domanda cui possiamo cercare di rispondere empiricamente anziché stare a specularci sopra. Ci sono neuroni nel cervello che forniscono agli organismi un senso della direzione. Ad esempio, neuroni che hanno un picco nell'attività di scarica quando il capo dell'animale è orientato in una particolare direzione. Sono attivi già alla nascita, questi neuroni? Oppure hanno bisogno di fare esperienza di diversi ambienti per iniziare a operare? Studiando ratti giovanissimi, si è visto che quando per la prima volta lasciano il nido i loro neuroni della direzione sono già funzionanti, in un modo indistinguibile da quello degli animali adulti. La sensibilità alla direzione nello spazio è qualche cosa cui i nostri cervelli sono pre-disposti dalla nascita».

In Nati per credere, che hai scritto insieme a Telmo Pievani e Vittorio Girotto, spieghi come mai il nostro cervello è predisposto a fraintendere l'evoluzione. Ho notato che nel mondo umanistico parlano sempre di «darwinismo», come se fosse una filosofia. Ma nessuno ha mai parlato di «newtonismo» per la teoria della gravitazione o di «eisteinismo» per la teoria della relatività. Eppure l'evoluzione ha un secolo e mezzo di prove, dalla paleoantropologia alla biologia molecolare, fino al Dna. Cosa c'è che disturba di più nell'evoluzione?

«Darwin ha scoperto un meccanismo, la selezione naturale, che rende superfluo il ricorso a qualsiasi disegno o progetto o intenzione per rendere conto dell'evoluzione delle specie, compresa quella umana. Ma, ironicamente, la selezione naturale ha foggiato il nostro cervello in modo tale che avesse una spiccata propensione a ritenere che agenti intenzionali, dotati di progetti e di scopi, siano alla base dei fenomeni naturali. Per buone ragioni, naturalmente. È adattativo credere che lo scricchiolio che senti dietro di te nel bosco sia il segnale della presenza di qualcuno (un agente intenzionale, dotato magari di scopi malevoli) anziché della presenza di qualcosa (il vento che ha mosso le foglie). Si sa, meglio essere prudenti che essere morti...».

Quindi paradossalmente proprio l'evoluzione ha creato nel cervello umano la resistenza a comprendere l'evoluzione.

«L'idea che l'evoluzione delle specie e la nostra stessa presenza nel mondo non siano il risultato di un artefice, ma di un meccanismo senza scopo e senza intenzioni cozza con le nostre intuizioni cognitive più basilari, intuizioni che la selezione naturale stessa ha foggiato nel corso dell'evoluzione dei nostri cervelli».

Chi pensa di avere un'anima, come la concilia con l'Alzheimer? O con il fatto che basti una piccola lesione in un'area del cervello per renderci diversi da come siamo?

«Pensiamo al cervello come a uno strumento al servizio di un misterioso io disincarnato. Ma i fatti, ahimè, sono impervi per quel che crediamo, e quando i nostri corpi e i nostri cervelli ci abbandonano non lasciano indietro nulla (se non le memorie di noi nei cervelli degli altri). Ho visto che è utile per chi trova difficile digerire tutto ciò fare esperienza di quello che abbiamo imparato su come funziona il cervello. In laboratorio si possono riprodurre una varietà di fenomeni che ci aiutano a comprendere come il nostro cervello costruisca la nostra esperienza del corpo (e come perciò in certe circostanze si possano esperire arti fantasma, uscite dal corpo e fenomeni che altrimenti sono confinati alla patologia)».

C'è poi il problema della consapevolezza di finire, che è deprimente. Tu come la prendi?

«Si dice a volte che per chi ha mangiato all'albero della conoscenza non c'è più Paradiso. Ciascuno di noi deve fare i conti con il disincanto che deriva dalla comprensione profonda della nostra natura. Per quel che mi riguarda mi dispiaccio soprattutto di non poter esserci: chissà tra cento o duecento anni quali fantastiche cose nuove avremo imparato sui cervelli e sul mondo! Intanto, comunque, cerco di applicare il principio che ho visto espresso una volta in un dialogo tra Charlie Brown e Snoopy, quando il primo dice al secondo Lo sai che un giorno dovremo morire?.

E Snoopy gli risponde: Sì, ma tutti gli altri giorni no!».

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