Cultura e Spettacoli

Grande «Falstaff» con Mehta e Michieletto

Immaginare Falstaff all'interno della Casa di Riposo per musicisti da Verdi fondata, è un'idea originale. Premesso il rispetto e l'affetto - non solo dei milanesi - verso questa istituzione, ambientare sei quadri diversi nella stessa sala era compito non semplice. Il regista di questa produzione proveniente dal Festival di Salisburgo, Damiano Michieletto, tutto ha sacrificato per seguire la sua idea madre, obliando, qualche volta, il testo, spesso perdendo tempi teatrali e spunti comici. Come dice il librettista Boito: «Da fallo nasce fallo». Alla fine non si usciva col sorriso, ma con un groppo malinconico. E qualcuno in piccionaia lo ha fatto capire al creativo regista con fischi e contrasti nella sortita finale. Grandi applausi, sunto di stima e rispetto, al maestro Zubin Mehta che ha curato con la nobiltà della sua classe il fraseggio e l'appiombo fra buca e palcoscenico, nonostante uno stacco di tempi prevalentemente cauto, a tratti circospetto. Tripudio meritatissimo per il Falstaff ormai «storicizzato» di Ambrogio Maestri, che funziona qualunque cosa faccia o non faccia, anche quando poltrisce o dorme sul divano. Reparto maschile solido: festeggiati soprattutto il Fenton del tenore sassarese Francesco De Muro (bandiera crociata con i quattro mori in platea) e il baritono Cavalletti (Ford), oltre ai puntuti Carlo Bosi (Cajus) e Francesco Castoro (Bardolfo).

Nell'equilibrato quartetto delle donne, menzione speciale ad Annalisa Stroppa nello spesso sacrificato ruolo di Meg. Interventi corali, al solito, pregevolissimi - perché non si usano più le voci bianche per i folletti e i farfarelli?

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