Cultura e Spettacoli

Il «manuale» di Sarraute per evitare la banalità

Andrea Caterini

O gni autore di romanzi dovrebbe tentare non necessariamente un'opera critica, ma almeno un'autocritica; insomma, ragionare sul proprio lavoro. L'incoscienza può essere santa; l'inconsapevolezza è sempre colpevole. Quante storie scritte in terza persona, tutte trama e intreccio, e la spicciola psicologia dei personaggi, la sintassi elementare, la voce atona: insomma lo schemino da Scuola Holden; ed escono tutti, da queste scuole, più poveri (un corso costa una fortuna) e tutti uguali (ne leggi uno li hai letti tutti). Ignorano quale sia la tradizione europea del romanzo; e ignorano che il Novecento di Proust, di Joyce, di Kafka ha sperimentato nuove possibilità. Scrivono come se le Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij dove l'io narrante lottava con un io estraneo e intimo, con la propria coscienza non fossero state un evento decisivo nella narrativa dell'Ottocento. Sono tanto più vecchi quanto più vogliono apparire giovani. Allora ci sembra utile rileggere i quattro saggi contenuti ne L'età del sospetto della scrittrice francese Nathalie Sarraute (Nonostante edizioni, pagg. 156, euro 17, traduzione di Donata Meneghelli).

Pubblicato per la prima volta in Francia nel 1956, qui l'autrice di Tropismi, la stessa autrice per la cui opera Sartre coniò l'espressione di anti-roman, fa i conti con il romanzo (a partire proprio da Dostoevskij, Kafka e Proust), nel momento in cui quella corrente chiamata nouveau roman gettava le basi di una nuova necessità espressiva, conseguente all'esaurirsi delle possibilità conoscitive ottenute dal romanzo tradizionale, quello appunto costruito con personaggi, psicologie e trame. Ma questa necessità è tutt'altro che una «ricerca da laboratorio», come lo sarà in Italia per i neoavanguardisti un decennio dopo. È al contrario l'idea di un romanzo come «analisi» dell'io, ma fuori da ogni psicologismo. L'idea di un romanzo che, in assenza di un personaggio, faccia «emergere all'esterno», attraverso la lingua, lo stile, «questi moti sotterranei insieme impazienti e timidi».

Ovvero, che faccia emergere una realtà più sotterranea come aveva già visto Dostoevskij attraverso le parole e non più per mezzo di storie.

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