Cultura e Spettacoli

Non solo grande cronista Pansa ha cambiato l'Italia

Neppure alla sua morte, gli è stato riconosciuto di aver riscritto la storia della Guerra civile

Alessandro Gnocchi

C hi ha acquistato i giornali di ieri, avrà notato una singolare mancanza negli articoli dedicati alla morte di Giampaolo Pansa (nato a Casale Monferrato nel 1935). Con le eccezioni di Pierluigi Battista sul Corriere della Sera e Renato Farina su Libero, e a parte chi ha scritto su questo giornale, nessuno ha pensato che fosse da portare in primo piano l'attività di storico di Pansa. Abbiamo dunque ripassato fatti indiscutibili: la grandezza del cronista, i servizi memorabili (Vajont e molti altri), le interviste cruciali e tanti altri successi ottenuti da Pansa in decenni di carriera. Pansa è stato un maestro, tra l' altro generoso e perfino affettuoso con i principianti. Niente da dire. Però abbiamo una notizia già sicura: non verrà ricordato solo per essere stato una grande firma; resterà nella storia d'Italia per aver cambiato la cultura. Nel bene e nel male. Il male lo spieghiamo subito: il successo di Pansa ha spalancato le porte a improvvisatori che scambiano la raccolta di testimonianze, pur interessanti, con lo studio della storia. Svarione che Pansa non avrebbe mai commesso. Aveva una formazione da vero studioso, tesi di laurea con Alessandro Galante Garrone, pubblicazioni specialistiche e partecipazione a convegni di primo piano, tutto questo a partire dalla fine degli anni Cinquanta, in cui già si occupava del suo tema prediletto: la Resistenza e il fascismo negli anni della guerra civile. Così Pansa nel 2003 intervistato da Domizia Carafòli: «Non è una cosa di oggi. La prima volta che dichiarai che non si poteva fare la storia di quei tremendi venti mesi dal '43 al '45 ignorando la realtà della Rsi, avevo 23 anni e mi trovavo a un convegno sulla storiografia della Resistenza a Genova, presieduto da Ferruccio Parri. Fui interrotto dagli astanti ma Parri mi invitò a proseguire. Alla fine ammise che non condivideva tutto quanto avevo detto ma che avevo fatto bene a dirlo». Pansa aveva scelto la forma del romanzo e del colloquio per arrivare al grande pubblico ma aveva le conoscenze necessarie per capire cosa sia un documento e come vada trattato. Non si può dire la stessa cosa dei suoi epigoni, inclusi quelli incoronati re delle classifiche. La grande editoria, di certo non per colpa di Pansa, ha assecondato questa deriva, con il pessimo risultato che la saggistica è stata più o meno spazzata via.

Veniamo al bene. Si può senz'altro notare che il quadro generale in cui vanno inseriti i libri più noti di Pansa, a partire da Il sangue nei vinti (Sperling & Kupfer, 2003), era già stato disegnato da pesi massimi come Augusto del Noce e Renzo de Felice. Si può anche aggiungere che i numeri del massacro posteriore al 25 aprile 1945 erano già apparsi nei lavori di Giorgio Pisanò. Non c'è dubbio, è così. Anche la memorialistica dei reduci di Salò o delle vittime innocenti dei partigiani già circolava. Non che Pansa fosse arrivato in ritardo: «Ho scritto L'esercito di Salò nei rapporti riservati della Guardia nazionale repubblicana nel 1969. Lo pubblicò l'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione. Ho sempre pensato che la storia della guerra non poteva bloccarsi al 25 aprile. Bisognava raccontare anche quello che accadde dopo. In quanto al clima politico, certo che è cambiato. In peggio. Lo choc per l'andata al potere del centrodestra ha fatto regredire la sinistra, che ora si è arroccata nel fortino ed è molto più sospettosa verso chi, come me, scrive da sinistra quello che è successo ai padri di molti della destra». Pansa ha preso questo tema delicatissimo, l'ha sottratto al circolo ristretto dei nostalgici e l'ha portato al mercato di massa, costringendo i cittadini ad aprire gli occhi davanti a verità sgradite: la Resistenza era una testimonianza morale importante ma irrilevante dal punto di vista militare; la gran parte degli italiani si collocava in una zona grigia in attesa della fine della guerra ma senza particolari passioni politiche; i partigiani non erano tutti uguali: alcune formazioni comuniste non erano al servizio dell'Italia ma della rivoluzione sovietica e se ne fregavano della democrazia; le stragi nel Triangolo rosso, a Liberazione avvenuta, rispondevano alla logica della vendetta e dell'odio di classe; sul confine orientale, alcuni partigiani rossi, per far spazio ai titini, non esitarono a far fuori i partigiani bianchi; molti ragazzi si arruolarono nell'esercito di Salò per idealismo patriottico: hanno perso, per nostra fortuna, ma meritano l'onore delle armi e non la dannazione dell'oblio. Oggi, a parte qualche relitto del passato, tutti concordano in linea di massima su questa ricostruzione. Ma nel 2003 Il sangue dei vinti scatenò una polemica infinita tra storici di rigoroso pedigree antifascista (ma non anticomunista) e... il resto d'Italia che comprò avidamente il libro. A ruota, arrivarono l'Anpi e associazioni militanti che, confermandosi ignoranti delle regole democratiche, hanno «inseguito» Pansa per un decennio, cercando di impedire le presentazioni dei suoi libri. Giorgio Bocca affermò che Il sangue dei vinti era «una vergognosa operazione opportunista» uscita non a caso «nel momento in cui è in corso una chiara operazione di rivalutazione del fascismo». L'ex sindaco socialista di Milano Aldo Aniasi, allora presidente della Federazione italiana delle associazioni partigiane, ribadì il concetto: «Quello di Pansa è un libro vergognoso, non revisionista ma falsario. Ed è vergognoso anche il comportamento di Pansa che in questi ultimi anni si è dedicato a inventare storie sui crimini dei partigiani in gran parte inesistenti». Migliaia di morti inesistenti, dunque. Dopo Il sangue dei vinti, per fortuna, nessuno azzarderebbe giudizi del genere, anche se ieri qualche poveretto ha festeggiato in Rete la morte del «fascista» Pansa (uomo sempre stato di sinistra, tra l'altro). Prima di Pansa tali giudizi erano la verità ufficiale. Pansa ha cambiato davvero la storia della cultura italiana. Sarà ricordato soprattutto per questo.

Cediamo la parola al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che si è unito al lutto della famiglia con questo messaggio: «La vivace intelligenza di Giampaolo, l'acutezza che manifestava nei suoi scritti hanno animato il suo lavoro di storico, anche suscitando polemiche e discussioni, come del resto era suo costume».

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