Cultura e Spettacoli

Quando senza i Velvet voleva farsi avvolgere dal velluto della poesia

Nel 1971 la star scrisse versi su politica, sesso e alcol. Che ora sono riemersi dal suo archivio

Quando senza i Velvet voleva farsi avvolgere dal velluto della poesia

Sul finire del 1969, Lou Reed viveva in un appartamento costoso dell'Upper East Side, a New York. Era completamente vuoto. C'erano una cassa di legno in un angolo, un registratore, una chitarra acustica. Il frigorifero conteneva un cartone di succo di papaya. E nient'altro. Reed era in piena crisi d'identità. Aveva cacciato dai Velvet Underground, il gruppo di cui era leader, il geniale polistrumentista John Cale e lo aveva sostituito con il più servizievole Doug Yule. Ora Lou sentiva che il manager puntava proprio su Yule, il volto pulito dei Velvet. Altro che la faccia da teppista del minaccioso Lou Reed. Non è tutto. Reed avvertiva che stava perdendo il controllo della situazione. Non voleva il successo a tutti i costi. Voleva essere riconosciuto come un artista vero.

I suoi testi hanno sempre cercato di portare l'arte nella musica rock in disaccordo col suo maestro all'università di Syracuse, il poeta Delmore Schwartz, che detestava le parole delle canzoni. E ora Lou si trova a dire nelle interviste che gli piacerebbe se i Velvet diventassero un gruppo da discoteca. Per quanto sia offuscato dalle droghe, Lou capisce di non essere se stesso. Al termine di un concerto al Max's di New York, lascia di stucco il resto della band. La batterista Moe Tucker lo trova seduto in disparte, in attesa dell'arrivo dei genitori. Cerca di farlo tornare sui suoi passi, senza riuscirci. Quindi Lou saluta l'altro chitarrista, Sterling Morrison, e gli presenta Toby e Sidney Reed. Morrison ne fu sorpreso. Reed aveva sempre parlato dei suoi genitori come di aguzzini che lo avevano sottoposto all'elettroshock per scuoterlo dall'apatia e dalla depressione ma soprattutto per correggere una latente omosessualità del figlio. Lou non perdonò mai Toby e Sidney. Ma nel momento del bisogno si rifugia da loro, a Freeport, benestante cittadina vicina a New York.

Nell'autunno del 1970, Lou lotta contro l'astinenza dalle droghe e dalla musica. Torna dallo psicanalista. Abita dai suoi genitori. Accetta un posto nella ditta di famiglia non come erede dell'attività ma come dattilografo a quaranta dollari alla settimana. Prova anche a fare lo spazzino ma resiste un solo giorno. Nel frattempo Loaded viene pubblicato con discreto successo. Doug Yule è il nuovo volto dei Velvet, la stampa a stento si ricorda dell'autore di tutti i brani, il dattilografo Lou Reed.

Il 1971 coglie Lou Reed nello spaesamento e nella indecisione. Ha fatto causa al vecchio manager, riprendendosi i diritti delle canzoni dei Velvet ma perdendo la proprietà del nome della band. Poco male. I Velvet senza Reed produrranno un solo disco, il debole Squeeze. Non si decide a ritornare nel circo del rock pur sapendo che quello è il suo destino. Per un attimo, decide di dedicarsi completamente alla poesia, come avrebbe voluto Schwarz. Il 10 marzo 1971 è invitato a leggere le sue poesie alla chiesa di San Marco, a New York. Tra il pubblico ci sono Allen Ginsberg e Jim Carroll. Sono poesie su politica, sesso e whiskey. Il sapore è vagamente beat. Ora quelle poesie, recuperate da un nastro trovato nell'immenso archivio lasciato da Reed alla Public Library for the Performing Arts al Lincoln Center di New York, sono oggetto di un piccolo ma prezioso libro edito da Anthology, Do Angels Need Haircuts?. Ogni testo è introdotto da Reed stesso e offre anche la postfazione della musicista d'avanguardia Laurie Anderson, moglie di Lou. Quella serata finì con Lou così gasato dall'entusiasmo del pubblico da fingere di boxare, declamare qualche poesia per la fidanzata Bettye e qualche altra, nuova di zecca, sull'amore omosessuale. Al termine, Lou afferma di aver mollato per sempre il rock, anche per non far infuriare lo spettro di Delmore Schwartz. Pochi mesi dopo però lo troviamo in partenza per Londra dove lo attende lo studio affittato per incidere il primo omonimo album solista, composto quasi per intero da brani scartati dai Velvet Underground, suonati da turnisti esperti ma estranei all'estetica selvaggia di Reed.

La contraddizione non deve stupire. È nel carattere di Lou. Anche il controllo è nel carattere di Lou. Se non può controllare qualcosa, la distrugge e riparte da zero. La sua carriera musicale è un saliscendi vertiginoso tra grandi successi e altrettanto grandi cadute. Dopo il flop dell'esordio, David Bowie decide di prendersi in carico, assieme al chitarrista Mick Ronson, la produzione dell'amatissimo Reed. Il risultato è Transformer, l'album di Walk on the Wild Side, Vicious, Perfect Day e Satellite of Love. L'album della consacrazione. Lou Reed prese subito a detestarlo perché suonava come un disco di Bowie. Il successo non tarda ad arrivare. A questo punto, mentre la casa discografica si aspetta Transformer 2 il sequel, Lou recluta il produttore Bob Ezrin per mettere in musica un drammone su una coppia che abusa di tutto: sesso, violenza, droga. L'atmosfera è quanto mai decadente, anche se si sente la mano di Ezrin nelle aperture orchestrali e nella teatralità di alcuni brani. Il flop è totale. Un disastro di incassi. La stampa fa a gara per la stroncatura più feroce. Oggi è considerato uno dei migliori dischi della storia del rock. Per la carriera di Reed comunque è una grave battuta d'arresto. A Berlin seguiranno i tour nei quali Reed, eseguendo soprattutto brani dei Velvet, si presenta come il rock'n'roll animal, una belva da palco. Il suono della band è segnato dai duelli chitarristici tra Dick Wagner e Steve Hunter. Il pubblico gradisce la versione hard rock di Lou Reed. Il problema è che non la gradisce proprio Lou Reed, che fa buon viso a cattivo gioco. Quando è tempo di tornare in studio, Reed ha perso totalmente interesse, al punto da dichiarare di non ricordarsi neppure di essere stato presente alle incisioni. Ironia della sorte, Sally Can't Dance, modesto album di moderno rhythm and blues, rimarrà il più grande successo di Lou Reed, che ne trasse questa morale: «Fantastico: più faccio schifo, più il disco vende.

Se la prossima volta non compaio nemmeno nel disco, probabilmente arrivo al primo posto in classifica».

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