Politica

La storia non si racconta con le sentenze

Il Giornale è stato condannato per un articolo su via Rasella. Anni fa criticammo il partigiano che compì l'attentato di Roma, ma ora una sentenza della Cassazione ha stabilito che quello «fu un legittimo atto di guerra contro un esercito straniero occupante mirato a colpire solo dei militari». E noi abbiamo torto ad aver riaperto una discussa pagina di storia.
Via Rasella è una strada stretta nel centro della Capitale, dove nel 1944 i Gap, il gruppo d'azione patriottica ispirato dal Pci, misero una bomba. Nell'esplosione perirono 33 soldati altoatesini più 2 civili, tra cui un bambino, e per rappresaglia i tedeschi del maggiore Herbert Kappler (tra di loro c'era anche Erick Priebke) assassinarono 335 italiani.
Il pezzo «condannato» risale a undici anni fa, epoca in cui non ero direttore di questo quotidiano. Se mi occupo del caso non è dunque per difendermi ma perché credo che i morti di via Rasella e quelli delle Fosse Ardeatine non siano affare per tribunali. La storia non la si racconta con le sentenze, anche se ho il sospetto che qualche giudice coltivi in materia più di una tentazione. Innanzitutto sgombro subito il campo da un paio di questioni. Primo: criticare gli autori della strage o nutrire dubbi sull'utilità dell'attentato non vuol dire assolutamente giustificare la rappresaglia nazista. Secondo: nell'articolo che il Giornale pubblicò c'erano effettivamente una serie di inesattezze; i soldati uccisi non erano disarmati e i tedeschi non affissero manifesti che invitavano gli attentatori a consegnarsi per evitare ritorsioni contro la città, come invece venne scritto.
Detto questo, qualche precisazione va fatta, prima di tutto sui civili uccisi in via Rasella.
Furono davvero due? Pare accertato che la bomba uccise un ragazzino di 13 anni e un uomo. Ma nella sparatoria che seguì ci furono altre vittime. Lo stesso Rosario Bentivegna, il partigiano che mise il tritolo, ammette tre morti, da lui attribuiti ai tedeschi, e poi riferisce di due militanti di Bandiera rossa colpiti durante l’attacco.
Ma chi erano i 33 soldati che furono uccisi dai partigiani a via Rasella? Molto probabilmente non erano ardenti nazisti e, al contrario di quanto stabilisce la sentenza della Cassazione, non è detto che fossero - almeno non tutti - di cittadinanza germanica. Negli anni Venti, dopo l'annessione dell'Alto Adige, il fascismo tentò di italianizzare il Sudtirolo: proibì l'uso del tedesco, cambiò i cognomi, distrusse monumenti, addirittura impose lapidi funerarie in lingua italiana. Tutto ciò non bastò e neppure servì a inaugurare fabbriche solo per italiani. Risultato, nel 1939 gli altoatesini furono messi di fronte a una scelta: optare per l'Italia oppure espatriare in Germania. Molti scelsero il Reich. Nel 1943, quando il maresciallo Badoglio firmò l'armistizio e scappò a Brindisi, tanti «optanti» - ossia sudtirolesi che avevano deciso di diventare tedeschi - non erano stati trasferiti. Avevano il passaporto italiano ma in poche settimane si ritrovarono inquadrati nelle truppe tedesche. Il 10 settembre Hitler istituì l'Alpenvorland, una regione che comprendeva Trento, Belluno e Bolzano e che era governata dal Gauleiter Franz Hofer. Per creare la sua polizia regionale il commissario superiore arruolò tutti i maschi dai 18 ai 50 anni: contadini e artigiani delle valli furono in breve rivestiti con una divisa verde e intruppati nei Polizeiregiment. Tra questi anche i 33 che morirono a Roma. Non erano quasi certamente dei volontari, anche se a loro fu fatta firmare una dichiarazione di adesione volontaria.
Non erano membri delle famigerate Ss. La maggior parte aveva fatto il servizio militare nel Regio esercito italiano. I tedeschi li amavano a tal punto che i comandanti del Bozen li incitavano a marciare chiamandoli «bastardi» e «maiali». Erano cattolici e i superstiti del battaglione si rifiutarono di partecipare all’eccidio delle Ardeatine. A Roma non facevano servizio di polizia, si addestravano al poligono. Ma il comandante tedesco commise l'errore di farli passare ogni giorno per via Rasella e il caso volle che un pomeriggio lì incontrassero un gappista. Racconto tutto ciò per dire che quelli uccisi nell'attentato non erano nazisti e neppure - per quel che si sa - feroci combattenti. Forse potevano diventarlo, ma sulla loro strada trovarono una bomba dei Gap...
E veniamo ai partigiani. Chi erano e cosa volevano? Innanzitutto liberare l'Italia da tedeschi e fascisti. I Gap erano una formazione fondata dal comunista Antonello Trombadori e l'ufficiale di collegamento nel Pci era Giorgio Amendola. I capi dei Gap erano fermamente convinti che si dovessero attaccare i tedeschi, compiere attentati anche in città, subito e senza attesa. Non aspettando cioè gli americani, che già stavano ad Anzio. Per questo misero il tritolo a via Rasella che uccise gli altoatesini. Avevano calcolato la rappresaglia? Probabilmente sì. I tedeschi avevano già minacciato e praticato la ritorsione, uccidendo dei civili per ogni soldato morto. Anche a Roma. Dunque si poteva immaginare che facendo strage di militari i nazisti avrebbero reagito. Ma come scrisse Giorgio Amendola era un problema che loro - i compagni comunisti che lottavano contro fascisti e nazisti - avevano risolto alla radice sin dal primo giorno in cui avevano imbracciato le armi, ossia non era un problema che potesse fermare l'azione partigiana. Alcuni storici sostengono che i Gap, anzi il Pci, avessero messo nel conto la rappresaglia. Ritenendo che una reazione dei tedeschi, ovvero l'assassinio di civili, avrebbe reso l'occupazione ancor più impopolare o addirittura avrebbe indotto i romani all'insurrezione. Non so se i gappisti avessero fatto questo calcolo cinico e se queste teorie abbiano fondamento. So solo che Luigi Longo, comandante delle Brigate Garibaldi e poi segretario del Pci, scrisse che la lotta non si poteva fermare: «Il morto tedesco non si può contrapporre ai dieci ostaggi fucilati, ma si deve considerare l'insicurezza che si crea nel nemico e lo spirito di lotta che queste azioni partigiane esaltano nelle masse nazionali».
Ma fu almeno militarmente utile l’attentato di via Rasella? Non credo. Gli americani erano alle porte e i tedeschi in difficoltà e quella strage non cambiò certo né le sorti di Roma né quelle dell’Italia.
Dunque? Per chiarire definitivamente un episodio che per qualcuno è il momento più alto della lotta partigiana e per altri semplicemente una pagina nera, dunque non basta un giudice, anche se della Cassazione. Ci vorrebbero degli studiosi che non seguano né la mistica della resistenza, né quella del fascismo. In attesa, ci tocca accontentarci di questa storia. E adeguarci alle sentenze.
Maurizio Belpietro

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