Economia

«Tassi a posto, ora pensiamo alla ripresa»

«I mercati hanno capito che Trichet voleva mantenere basse le aspettative di inflazione. La Fed meglio di noi? Come paragonare Alonso a Schumacher»

nostro inviato a Francoforte

«Il livello così basso dei tassi di interesse degli ultimi due anni e mezzo non solo non era più sostenibile, ma rischiava anche di essere dannoso. Per questo abbiamo deciso di alzarli. E con la loro reazione i mercati hanno mostrato di aver capito la nostra mossa». Lorenzo Bini Smaghi, dal suo ufficio al trentaquattresimo piano dell’Eurotower di Francoforte, commenta la recente svolta della Banca centrale europea, che dopo cinque anni di ribassi ha portato i tassi dal 2 al 2,25%. Una prima volta per il presidente dell’istituto Jean-Claude Trichet, numero uno dal novembre 2003 (il costo del denaro era fermo dal giugno dello stesso anno). Una prima volta per lo stesso Bini Smaghi, entrato a far parte del comitato esecutivo dell’istituto, l’organismo che pilota la politica monetaria europea, formato da sei persone, nel giugno scorso. «Il rialzo ha contribuito a mantenere basse le aspettative di inflazione, con effetti positivi sui tassi a lungo termine, che restano a livelli molto bassi».
Eppure i politici europei, con poche distinzioni, erano in maggioranza contrari. Tremonti ha parlato di una decisione non eccitante.
«Quello di Tremonti è un giudizio equilibrato. Queste decisioni non devono eccitare, soprattutto i mercati. Tremonti sa bene che è in gran parte grazie alla Banca centrale europea, e alla sua credibilità, se il Tesoro italiano riesce a indebitarsi a una tasso a dieci anni di solo il 3,6%. Prima dell’euro i tassi di interesse erano molto più elevati e a pagare erano i contribuenti. Lo stesso vale per gli imprenditori: per loro il livello dei tassi è ai minimi storici. Pensi a chi ha un mutuo: paga tassi poco superiori al 4%. E a dimostrare la convenienza dei tassi è la crescita del credito al consumo che nel nostro Paese si sviluppa a ritmi del 17% all’anno».
Prima avete sottolineato le esigenze di mantenere sotto controllo le aspettative di inflazione, subito dopo avete detto di non avere in programma ex ante una serie di rialzi...
«Francamente non vedo contraddizione. Dopo il rialzo dei tassi, le aspettative di inflazione sono tornate sui livelli di normalità. Questo significa che per ora il rialzo basta. Ciò non esclude però che, se si ripresentasse una situazione in cui le aspettative di inflazione risalissero, non saremmo pronti a ripetere l’operazione. Anche se al momento non vediamo motivi per un aumento delle aspettative di crescita dei prezzi. In ogni caso, prima di procedere con nuovi rialzi è necessario che si consolidi la ripresa economica».
Si è parlato di una banca centrale quasi prigioniera della necessità di affermare la propria credibilità e severità. Come valuta l’accusa?
«La credibilità si gioca in base alle aspettative di inflazione che si riflettono sui tassi a lungo termine. I dati mostrano che le aspettative di inflazione per l’area euro sono tra le più basse del mondo industriale. L’implicazione è che la Bce è considerata molto credibile. E di questa credibilità beneficiano in fin dei conti i cittadini, le imprese, gli Stati».
E quando legge, come qualcuno ha scritto, che «la Federal Reserve è meglio della Bce», che cosa pensa?
«Sarebbe come scrivere che Alonso è meglio di Schumacher. Dipende dalla macchina. L’economia americana è molto diversa da quella europea e fare confronti non mi sembra adeguato. Comunque, guardando all’inflazione, che è in fin dei conti l’obiettivo principale di una banca centrale, in Europa siamo poco sopra al 2%, negli Stati Uniti sono oltre il 4».
Per la Bce si parla sempre più spesso di falchi e colombe. Lei in prima fila tra le colombe, Trichet, Weber, il numero uno della Bundesbank e un tedesco onorario, a guidare i falchi. La semplificazione coglie nel segno?
«No, la divisione tra falchi e colombe non ha molto senso, per chi partecipa al dibattito interno e prende le decisioni. Certo, ognuno ha il suo modo di pensare e di valutare gli sviluppi sottostanti dell’economia. Ma alla fine le decisioni vengono prese con grande consenso, incluso l’ultimo rialzo».
L’impressione è che comunque la Bce sia a volte un facile capro espiatorio. Il vero problema è che l’Europa non cresce abbastanza. Perché?
«Abbiamo appena rivisto le nostre previsioni per il 2006: indicano una crescita dell’1,9%. Siamo più cauti del Fondo monetario internazionale, che prevede il 2% e dell’Ocse, 2,1. Non sono ritmi elevatissimi ma la ripresa c’è. Il problema è la sostenibilità della crescita sul medio periodo. L’Europa deve trovare soluzioni efficaci ai problemi che ha di fronte, in particolare l’invecchiamento della popolazione e la globalizzazione. L’invecchiamento rallenta la domanda interna, crea ansia presso i cittadini e scoraggia i consumi. Senza una riforma dello Stato sociale che crei sicurezza, il risparmio in Europa continuerà a rimanere elevato. La globalizzazione, invece, incide sulla competitività dell’Europa».
E l’Italia?
«L’Italia ha fatto molti progressi in termini di mercato del lavoro e riforma delle pensioni. Ora è necessario dare maggiori certezze sulle prospettive di medio termine della finanza pubblica. Sul lato esterno, invece, è stata persa molta competitività, soprattutto per quanto riguarda il costo unitario del lavoro. Il made in Italy arranca in molti settori. Bisogna recuperare rapidamente».
In che modo?
«La competitività dipende dalla produttività e dai salari. Come ovvio è meglio agire sul fronte della produttività, dunque servono investimenti e innovazioni. Certo non si può dimenticare che la dinamica dei salari italiani è stata mediamente superiore a quella degli altri Paesi europei. Una realtà che almeno in parte riflette un sistema distributivo e di fissazione dei prezzi, soprattutto nel settore dei servizi, che non è competitivo a livello europeo. Da qui la necessità di ampie liberalizzazioni, di politiche tariffarie più concorrenziali».
E tornando alla finanza pubblica. Qual è il problema?
«Dal punto di vista strutturale la finanza pubblica italiana deve fare i conti con ritmi di crescita potenziale tra l’1,5% e il 2%. La dinamica demografica e quella della produttività ci condizionano: sono questi i ritmi di crescita che realisticamente ci si può aspettare. C’è una conseguenza: se si vuole ridurre il rapporto tra debito e prodotto interno il disavanzo pubblico deve rimanere sotto il 2%. Il Trattato di Maastricht pone un limite del rapporto debito-Pil al 3%. Ma era basato su ipotesi di crescita del 3% con un’inflazione al 2%. Ora le condizioni che consentono l’equilibrio di lungo periodo sono cambiate».
Le prospettive di una solida ripresa dell’economia europea rischiano di essere messe in crisi dalla variabile valutaria. Per il momento gli Usa sembrano in grado di reggere i deficit gemelli senza un sostanziale calo del dollaro. È una situazione che può continuare?
«In Europa ci si deve abituare, come hanno fatto gli Stati Uniti, a variazioni dei tassi di cambio. Questo richiede che le imprese si concentrino sugli aumenti continui di produttività, indipendentemente dalle fluttuazioni valutarie. In alcuni Paesi ci stanno riuscendo. In ogni caso sono da evitare le drammatizzazioni: a un rapporto euro/dollaro come quello attuale, circa 1,17, e guardando alla vecchia lira italiana siamo ai livelli del 1995, quando il problema non sembrava così grave».
A proposito di Italia: fino a che punto vedete rispettate le esigenze espresse dalla Bce nel disegno di legge sul risparmio?
«Aspettiamo di vedere le modifiche che verranno apportate al progetto e le decisioni del Parlamento. Mi sembra un’occasione da non perdere per allineare l’assetto della Banca d’Italia agli standard internazionali.

Da quello che leggo mi sembra comunque che l’orientamento del governo vada nella direzione indicata dalla banca centrale».

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