Economia

La vera storia dello spionaggio Telecom

Anche i pm sono convinti che l’allora presidente Tronchetti Provera non c’entri con i dossier illeciti confezionati dall’ex capo della security Tavaroli. Ma per questa storiaccia il manager ha perso il controllo della società

La vera storia dello spionaggio Telecom

I pm della Procura di Milano hanno richiesto il rinvio a giudizio per una serie di ex dipendenti Telecom e Pirelli, per l’ex funzionario del Sismi Marco Mancini e per l’investigatore privato Emanuele Cipriani: una lunga lista di reati per i cosiddetti dossier illeciti Telecom-Pirelli. Per gli stessi pm i vertici delle due società e il suo numero uno dell’epoca, Marco Tronchetti Provera, non c’entrano nulla. Un’altra dozzina di imputati, tra cui il famoso Giuliano Tavaroli responsabile della funzione security Telecom e Pirelli, hanno già richiesto il patteggiamento. Tra i reati che i pm hanno contestato c’è l’appropriazione indebita. È la cartina di tornasole dell’impianto accusatorio che hanno costruito i pm: le società coinvolte e i vertici sono state vittime e non già complici delle operazioni di dossieraggio. Vedremo se nelle prossime settimane il giudice dell’udienza preliminare confermerà la struttura dell’accusa.

Si può però a questo punto fare un piccolo riepilogo delle tante balle che sono state montate ad arte su tutta questa storia. Balle, sia chiaro, che pur sciogliendosi oggi come neve al sole hanno avuto un risultato fenomenale: sfilare la Telecom alla Pirelli di Marco Tronchetti Provera. Indipendentemente dal giudizio sulla gestione pirelliana del colosso telefonico, si può dire che il contesto che ha cagionato la sua uscita sia stato alimentato con grande sapienza dall’ostilità manifesta dell’allora governo Prodi, con la regia di un’attenta Repubblica.
Mettiamo in fila le sciocchezze che quattrocinque anni fa venivano date per verità assolute e che questo avvio di processo sta svelando.

La madre di tutte le balle: le intercettazioni telefoniche
L’idea diffusa che Tronchetti e i suoi uomini alzassero una mega cornetta rossa, comodamente nei loro uffici, e ascoltassero le telefonate di chiunque, a loro piacimento, è una bufala. Per carità, l’Italia resta uno dei paesi più intercettati. Ma di illegale c’è poco. È tutto autorizzato (con un certo lassismo, ma questo è un altro discorso) dai magistrati. Eppure si ricordano quelle foto sui quotidiani (Repubblica le mette ancora in pagina) in cui si vedono oscuri personaggi che sono lì ad ascoltare e prendere appunti alla cornetta del telefono. Si trattava di una balla, ma dalle gambe lunghe. Un magistrato, Luigi Napoleone, lo ha scritto nero su bianco: «Le notizie dell’esistenza di una centrale interna a Telecom Italia, dedita ad intercettare illegalmente... risulta essere stata diffusa dai media in modo così capillare e reiterato da generare in tutta l’opinione pubblica il convincimento della sua veridicità al punto da coinvolgere in questa suggestione collettiva anche molti settori delle istituzioni». Ecco la prima mega balla. Ma andatelo a dire in giro: e state certi che qualcuno ancora storcerà il naso. Telecom Italia, disse in audizione al Copaco (oggi Copasir, il Comitato di controllo del parlamento sui servizi segreti, ndr) il successore di Tronchetti, Guido Rossi «non ha effettuato intercettazioni» e riguardo al commercio di tabulati telefonici (chi ha telefonato a chi): «In via autonoma ed in epoca precedente agli interventi dell’autorità pubblica Telecom ha denunciato alla Procura di Roma il fatto, coerentemente con l’atteggiamento di massimo rigore adottato in ogni caso accertato di illecita diffusione e utilizzo dei dati di traffico».

Il testimone è colpevole e dunque si processi Tronchetti
Un altro mito ben radicato è che i vertici di Telecom e Pirelli siano stati i mandanti di tutto il dossieraggio. Sgomberato il campo dalle ipotesi delle intercettazioni vere e proprie, resta il maleodorante sospetto che Tavaroli e i suoi costruissero dossier illegali a tutto beneficio di Tronchetti e dei suoi amici e familiari. In questa tornata di udienza preliminare davanti al Gup, i difensori degli indagati hanno legittimamente fatto domande molto precise a Tronchetti. Le risposte sono state interpretate come un processo al testimone, più che come una spontanea testimonianza. In realtà i vertici della Telecom sono stati già ascoltati dai pm e ritenuti del tutto estranei ai fatti. Il caso più eclatante è quello di Cipriani, l’investigatore privato che ha congelato 20 milioni di euro in parcelle pagate da Pirelli e Telecom. Tronchetti insieme alla Pirelli e alla Telecom si sono costituiti parte civile per ottenere un risarcimento (vista l’ampia provvista di fondi sequestrati) proprio da Cipriani. E quest’ultimo ha cercato un accordo per transare a 4 milioni con Pirelli. La società non ha accolto l’offerta. Insomma per farla breve non è Cipriani che accusa Telecom e Pirelli, ma è il contrario.

Il meccanismo mentale (questa volta non dei giudici ma di molti osservatori) è il solito: Mtp non poteva non sapere. E il messaggio di Guido Rossi che abbiamo già riportato viene con un tratto di spugna cancellato. È stata Telecom Italia, dice l’avvocato che sostituì Tronchetti, ad aprire le danze delle denunce. La catena delle responsabilità all’interno della banda degli spioni è inoltre confusa. L’uomo Pirelli e Telecom, Tavaroli, ai magistrati dirà: «Cipriani svolgeva in assoluta autonomia il suo lavoro. Noi non gli abbiamo mai chiesto di fare interrogazioni sui precedenti penali. Forse Cipriani ha abusato della fiducia che Telecom e Pirelli avevano nei suoi confronti». Lo stesso Cipriani cade in numerose contraddizioni. In una intervista a Repubblica dice «di non aver mai incontrato in vita sua Tronchetti», ma in occasione delle recenti udienze sostiene esattamente il contrario.

In questo gran pasticcio c’è una morale. L’unico modo che i presunti colpevoli (Cipriani e company) hanno per derubricare i propri reati è quello di tirare in ballo i vertici societari dell’epoca e dipingersi come meri esecutori. Ecco perché il testimone diventa improvvisamente imputato.

Il baco del «Corriere» e i buchi di Mucchetti
In questa brutta storia di dossier finisce anche il giornalista del Corriere della Sera, Massimo Mucchetti, ritenuto vicino al numero uno di Intesa San Paolo, Giovanni Bazoli. Un gruppo di esperti informatici interni a Telecom prova ad entrare nel pc del giornalista. A ciò seguono anche tentativi di adescamento. Mucchetti se la lega al dito, e d’altronde come dargli torto. E si costituisce parte civile. Una storia allucinante, che verrà in buona parte raccontata dallo stesso cronista economico nel libro Il baco del Corriere. La tesi che circola è la seguente: Tronchetti aveva posto un veto sull’assunzione del giornalista al Corriere e una volta assunto vuole ottenere informazioni riservate sullo stesso. Il legale di Mucchetti interroga tra gli altri il presidente della Rcs di allora, Cesare Romiti, e l’ex direttore del Corsera, Stefano Folli. Dai verbali, in possesso del Giornale, emergono elementi che però disegnano un quadro diverso. È vero che Tronchetti si lamentò, dice Romiti, ma «io replicai che l’assunzione era avvenuta e rimaneva». Romiti ricorda come fossero candidati alla posizione di vicedirettore anche Gambarotta e Calabrò. Ma alla fine Folli scelse, comunicandolo, al solo Romiti, Mucchetti. Il giornalista ha ragione a denunciare l’ostilità di Mtp, ma l’indipendenza di Mucchetti, secondo i verbali dell’interrogatorio di Folli, aveva urtato i nervi di altri azionisti (probabilmente non quelli di Bazoli). «Ricordo - verbalizza Folli - un articolo sugli interessi societari di Della Valle, per cui lo stesso azionista protestò presso di me».

Insomma Mucchetti faceva (e bene) il suo mestiere. Tronchetti e altri non erano così contenti dei suoi pezzi. E protestavano con il direttore. Ma nessuno aveva posto alcun veto all’assunzione di Mucchetti. Anche Folli ha però qualcosa da rimproverare. «Non seppi assolutamente niente - dice Folli - dell’intrusione informatica che Mucchetti subì». Non ritiene che il direttore lo avrebbe dovuto sapere, chiede l’avvocato? «Assolutamente sì - risponde Folli - ritengo essenziale che il direttore fosse a conoscenza di un fatto così grave». E d’altronde Mucchetti non solo non lo dice al direttore, ma si rivolgerà proprio ai «pirati» (Tavaroli e Ghioni) per avere qualche spiegazione sull’accaduto.

È chiaro come il comportamento della vittima (Mucchetti) - che per capire cosa gli fosse accaduto si rivolge ai suoi «carnefici» - abbia creato l’equivoco (ancora oggi presente in molti settori) che le mani e le spie fossero eterodirette.

Un’evidenza che i processi stanno smontando.

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