Sulle querele sempre due pesi e due misure

Il Tribunale penale di Roma condanna Saviano per diffamazione

Sulle querele sempre due pesi e due misure
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Primo episodio, 12 ottobre 2023. Il Tribunale penale di Roma condanna Saviano per diffamazione, infliggendogli una multa poco più che simbolica (1.000 euro). Aveva dato dei «bastardi» a Salvini e Meloni per le loro posizioni anti migranti. La mitezza della pena è dovuta al fatto che il giudice ha riconosciuto le attenuanti generiche, tra cui l'aver agito per «motivi di particolare valore morale».

Secondo episodio, 15 maggio 2024. La filosofa Donatella Di Cesare, querelata dal ministro Lollobrigida con l'accusa di diffamazione, viene prosciolta. Il ministro aveva usato l'espressione «sostituzione etnica» (presente nel lessico nazista) e lei aveva affermato che «quello del ministro non può essere preso per uno scivolone perché ha parlato da gauleiter, da governatore neohitleriano».

Nelle stesse ore del proscioglimento di Di Cesare, si apprende che il Tribunale di Napoli ha condannato il giornalista Pasquale Napolitano a 8 mesi di carcere (pena sospesa) più una multa di 6.500 euro per diffamazione a mezzo stampa: in un articolo pubblicato sulla testata «Anteprima24» aveva raccontato la vicenda del presidente del Consiglio dell'Ordine degli avvocati di Nola, rimasto in carica «attaccato alla poltrona» nonostante la mancanza di una maggioranza.

Parrebbe dunque sussistere una gerarchia: «attaccato alla poltrona» è un insulto gravissimo, che ti fa meritare il carcere; «bastarda» è un po' meno grave, specialmente se lo dici per motivi di particolare valore morale, invece «governatore neohitleriano» si può dire tranquillamente, se sei un professore e fai un paragone storico. Ma c'è una logica, in tutto questo? Non saprei.

Se proprio dovessimo trovarne una, si potrebbe ipotizzare che nella testa dei giudici viga una sorta di sottile scala di gravità, che distingue fra offese alla persona in quanto tale («Sei un bastardo»), offese alla persona in quanto ha fatto qualcosa («Ti sei comportato da bastardo») e offese alla persona in quanto somigliante a una persona negativa («Parli come quel bastardo di ...»).

Forse capiremo meglio dopo il 7 ottobre di quest'anno, quando il professor Luciano Canfora andrà a giudizio per aver affermato in pubblico (in un liceo di Bari) che Giorgia Meloni è «neonazista nell'animo». Se Canfora dovesse essere condannato, potremmo forse inferirne che quel che il giudice punisce sono gli attacchi diretti alla persona in quanto tale, a prescindere dalla gravità dell'accusa («incollato alla poltrona», «neonazista nell'animo»). Se Canfora dovesse essere assolto dovremmo forse inferirne che gli intellettuali - come lui e la professoressa Di Cesare - godono di speciali immunità quando le loro offese («neohitleriano», «neonazista nell'animo») sono pronunciate nell'ambito di un ragionamento storico, sociologico o filosofico.

Vedremo. Quel che resterà comunque in piedi è il problema di conciliare libertà di espressione e rispetto della persona umana, due principi inevitabilmente destinati a confliggere fra loro. Sarebbe già un grande progresso, però, che i giudici non peggiorassero le cose spostando continuamente - e soprattutto soggettivamente - il confine fra quel che si può dire e quel che non si può dire in pubblico.

Perché oggi l'unica certezza che ci accompagna è la consapevolezza che, da qualsiasi lato ci troviamo - accusati o accusatori - il nostro destino molto dipende dal giudice nelle cui mani siamo capitati.

* Articolo tratto da «La Ragione»

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